Riproponiamo l'intervista del 2018 a Ennio Doris, scomparso a 81 anni nella notte tra martedì e mercoledì, che raccontò come reagì dopo la crisi del 2008 che mise in ginocchio l'economia mondiale.
«Il fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers è stato uno spartiacque nella storia dell’economia mondiale. Il crack è stato più devastante dell’attacco alle Torri gemelle e della crisi petrolifera degli anni Settanta. E ha aperto la strada all’ascesa di Donald Trump. Ma per noi è stata anche un’opportunità». Ennio Doris, fondatore e presidente di Banca Mediolanum (controllata dalla sua famiglia e da Fininvest), ha uno sguardo un po’ diverso sulla crisi che ha investito il mondo dopo il crack Lehman di dieci anni fa.
Opportunità in che senso?
«Nella primavera del 2008 venne salvata in extremis la banca d’investimenti Bear Sterns che era un po’ più piccola di Lehman. Io pensai subito che se un caso simile avesse colpito i titoli presenti nel portafoglio dei nostri clienti, avremmo dovuto rimborsarli subito, dimostrando di essere diversi da tutte le altre banche. A settembre, fallì Lehman Brothers. Circa undicimila nostri clienti avevano sottoscritto polizze assicurative il cui capitale era garantito da obbligazioni Lehman per un valore di 203,5 milioni di euro. Avevano perso tutto. Arrivai alla riunione e trovai i miei collaboratori che piangevano perché non sapevano come dirlo alle persone. Io dissi: “Tirate fuori i telefonini e mettiamoci in posa per una foto ricordo perché questa data entrerà negli annali della storia della banca”. Mi guardarono stupiti. Dissi loro di stare tranquilli perché i clienti li avremmo rimborsati noi. Fu un mezzo azzardo perché non avevo ancora parlato con il mio socio, Silvio Berlusconi».
Cosa gli propose?
«Di mettere i soldi noi due. Servivano 160 milioni di euro. Quell’anno l’utile netto di Banca Mediolanum era di 180 milioni. Per fare quest’operazione bisognava destinare il 90 per cento degli utili a un’azione di solidarietà. I soci di minoranza, che giustamente si aspettavano il dividendo, non sarebbero stati d’accordo. Dissi a Berlusconi: facciamo noi, da soli. Considerato che avremmo avuto un risparmio di imposte di circa 40 milioni, servivano 120 milioni. 63,5 dalla mia famiglia, 56,5 da Fininvest».
Lo convinse subito Berlusconi?
«Non ci volle molto. Gli dissi testuale: “Silvio, questa è un’opportunità così grande che se non fosse arrivata avremmo dovuto inventarcela”. Era l’occasione perfetta per dimostrare che noi siamo diversi dagli altri. Infatti, l’anno successivo la raccolta netta di risparmio fu di 5,8 miliardi, quasi il doppio del 2007. E oggi siamo una delle banche più solide d’Europa».
Che cosa ha significato il fallimento di Lehman Brothers per l’economia?
«È stata la più grave crisi del dopoguerra perché è andata a toccare un principio sacro: la fiducia dei risparmiatori nei confronti della banca che custodisce i loro depositi. Aver rotto quel principio ha significato perdere la fiducia non solo nel sistema bancario ma nel futuro tout court. Dopo il crack della Lehman, ci fu un calo di consumi fortissimo. Dal 15 settembre 2008 al mese successivo, le vendite di auto calarono dal 30 al 40 per cento in tutto il mondo».
È stato giusto far fallire Lehman?
«No, il Governo Bush avrebbe dovuto salvarla come fece il giorno prima del crack Lehman con Merrill Lynch».
Perché non lo fece?
«Parlai con un consulente del presidente Bush che aveva seguito la vicenda. Mi spiegò che, quando la Federal Reserve, qualche mese prima, salvò Bear Sterns, la reazione dell’opinione pubblica americana fu negativa perché fu percepita come un salvataggio degli squali della finanza che prendevano un sacco di quattrini facendo operazioni spericolate sui prodotti finanziari. Allora, mi disse, Lehman era il mostro che dovevamo dare in pasto alla gente per placare la sua indignazione. Salvando le altre banche il messaggio al mercato era chiaro: Lehman è un caso isolato. Non è andata così e la crisi che ha innescato quel crack la paghiamo cara ancora oggi».