Agli sbarchi, sulla costa Jonica
della Calabria, sono abituati
dall’alba dei tempi.
Tra leggenda e storia, cominciarono
i greci, che in
queste acque lasciarono un tesoro nascosto
per oltre due millenni: due
straordinarie statue bronzee di epoca
ellenistica, ripescate in mare nel 1972.
I bronzi di Riace, però, da queste parti
fecero solo una fugace apparizione.
Sottratti alle acque, vennero immediatamente mandati
a Firenze per i restauri
e quindi al Museo archeologico nazionale
di Reggio Calabria per i turisti.
La storia recente racconta di
sbarchi ben più drammatici. Migliaia di
persone, uomini, donne, bambini, in fuga
dalle guerre, dalla fame, dalle ingiustizie,
in cerca di una sponda migliore
dove vivere una vita più degna. «Il primo
luglio del 1998 circa trecento curdi
hanno fatto naufragio lungo la costa
di Riace. Portavano con sé storie di
guerra. Hanno cambiato la nostra storia».Domenico Lucano, per tutti Mimmo,
il primo cittadino di Riace, ricorda
così quel tragico evento che ha cambiato
anche la sua, di vita. Era stato tra i
primi ad accogliere quelle persone,
che la Croce rossa portò alla Casa del pellegrino,
e tra i primi a occuparsi di loro,
per il cibo, gli abiti, le coperte. Era la prima
volta. C’era tutto da fare, tutto da imparare.
Si cominciò con la creazione, nel
1999, di “Città futura”, un progetto di accoglienza
dei profughi, ma anche di rilancio
del paese: restauri un po’ ovunque,
apertura di laboratori artigianali, corsi di
lingua, appartamenti recuperati, sia per
l’accoglienza dei rifugiati che per i turisti,
murales variopinti che danno un tocco di
colore a questo antico borgo medievale.
Curdi, afghani, palestinesi, etiopi,
eritrei, somali, serbi, albanesi, egiziani,
siriani, iracheni e iraniani: è
passato mezzo mondo da Riace. Più di
3 mila profughi, con punte di circa 300
presenze straniere per volta, in un paese
che conta 1.800 abitanti, tra il borgo
antico sulla collina e la marina lungo il litorale.
Oggi Riace è diventato un modello
di accoglienza e integrazione che fa
da capofila a iniziative analoghe sorte
nei dintorni, in paesini come Badolato,
Caulonia, Stignano e altri. Un’esperienza
a cui guardano con interesse molte
realtà, non solo italiane ma anche straniere.
Al punto che il famoso regista tedesco Wim Wenders,
nel 2009, vi ha girato
un film, Il volo: storia di una piccola
comunità che si è aperta all’accoglienza
degli immigrati, sperimentando in questo
modo vie nuove anche per la propria
sopravvivenza.
L’idea di fondo è quella di una solidarietà
condivisa tra gli abitanti del luogo,
che spesso non hanno altra alternativa
all’emigrazione, e gli stranieri costretti,
invece, a immigrare nel nostro Paese.
Il modello è tutt’altro che assistenzialista:
«Aiutando gli altri, aiutiamo noi stessi
», sintetizza il sindaco, che è diventato,
suo malgrado, un modello e un esempio,
quasi una star. Arrivano giornalisti e
televisioni da tutto il mondo a Riace,
per documentare il «miracolo» di questa
piccola comunità, fortemente legata
alla propria cultura e alle proprie tradizioni,
ma che sta rinascendo a vita nuova
grazie all’integrazione di persone che
vengono da ogni dove. Mimmo Lucano
non nasconde il fastidio di essere continuamente
sotto i riflettori. E non nasconde
neppure i problemi. Che non
possono mancare. Il contesto, d’altronde,
è tutt’altro che facile: in paese non
c’è lavoro, è evidente, e dalla Seconda
guerra mondiale in poi la gente ha sempre
cercato di emigrare altrove, al Nord
o all’estero. «Qui non nascevano più
bambini», dice la maestra Cosimina.
«Solo grazie alla presenza degli immigrati
abbiamo potuto tenere aperta la scuola
elementare». Una prima e due pluriclasse:
40 bambini in tutto, lo scorso anno,
di cui 28 stranieri.
In tutta la regione del resto non c’è vita
facile: mancanza di lavoro, mancanza
di servizi e infrastrutture e assenza
dello Stato, che fa sì che la criminalità
organizzata arrivi a permeare tutti i
gangli vitali di questa terra. Il sindaco
non lo dice, ma è stato più volte minacciato:
l’auto bruciata, la porta del ristorante
gestito dalla cooperativa colpita
con proiettili, così come il chiavistello
della sede di “Città futura”. Eppure in
paese si respira un’atmosfera rilassata,
serena. Gli anziani se ne stanno seduti
lungo la via principale e nella piazza, come
sentinelle. Accompagnano con un
saluto e un commento chi va e chi viene.
La piazza, del resto, è il centro di tutto. C’è un funerale e tutto il paese è mobilitato.
C’è il contadino di Stignano che
viene con la sua auto a vendere la verdura.
E l’afghano che porta vestiti e scarpe.
Entrambi nel baule della macchina. Ci sono
le donne emigrate, soprattutto somale,
eritree ed etiopi, che si fermano con i
loro bambini vivacissimi. E quelli di Nadira
l’afghana – 29 anni e quattro figli – del
negozio di collane e souvenir, che volentieri
si precipitano a giocare con gli altri
piccoli. All’angolo, c’è una bottega del
commercio equo-solidale, dove si vendono
i prodotti realizzati sul posto, nei
diversi laboratori creati dall’associazione:
vetro, ceramica, falegnameria, ricamo...
C’è il progetto di rilanciare quello
dell’intreccio della ginestra – un’arte antichissima
da queste parti – e un nuovo laboratorio
di produzione del cioccolato.
Vi lavorano immigrati e italiani, un modo
per facilitare l’integrazione, ma anche
per dare lavoro agli uni e agli altri.
Poco distante dalla piazza, sulla
porta di un negozio, sedute su basse sedie,
Caterina ricama insieme a Helen e
Salaam. Sembra una scena d’altri tempi,
ma con protagonisti del tutto nuovi.
Helen e Salaam sono eritree, entrambe
arrivate a Riace nel 2008, dopo essere
sbarcate a Lampedusa e poi transitate
dal campo di Crotone. Salaam dice
che «si sta troppo bene qui. La gente è
gentile, c’è la scuola materna dalle suore
e poi quella elementare». Helen è arrivata
che era incinta. Ora ha una bimbetta,
la seconda, che gioca lì attorno
insieme alla figlia di un’altra etiope e a
quelle di Shugri, somala, che ha una
bimba di 9 anni, Anna, e un maschio di
10, Thomas. Come in Africa, non capisci
a chi appartengano i figli. Tutti se ne
occupano, anche gli anziani di Riace, come
in una vera comunità.
«La gente di qui continua ad andare
al Nord», dice Caterina,
che per diversi anni ha dovuto
fare la baby-sitter prima di potersi nuovamente
dedicare alla sua passione, il ricamo,
che ora ha trasmesso anche a
queste due donne. «Grazie alla presenza
dei profughi e a “Città futura”, oggi in
paese c’è qualche opportunità di lavoro
in più anche per noi». Poco distante c’è
il laboratorio del vetro: ci lavorano Irene
di Riace e Lubaba diWallo, Etiopia. Irene
è un perito chimico che poi si è specializzata
nel vetro soffiato. E ha insegnato
quest’arte a somali, etiopi, eritrei, afghani... «Lavorare insieme aiuta a conoscersi
e a diventare amici», dice, guardando
Lubaba, ventisettenne, che è arrivata
qui tre anni fa. «Un viaggio infernale
», racconta: «Sette mesi in Sudan, tre
anni in Libia. Poi la decisione di attraversare.
Eravamo in trecento su un barcone
». Lei, nata in Etiopia ma di origini eritree,
ha pagato il caro prezzo dell’odio
tra questi due Paesi, che si sono fatti la
guerra e continuano a discriminare reciprocamente
le popolazioni. Ha un figlio,
Ferdos, di circa un anno, un fidanzato
che spera possa venire da Malta, e una
sorella Zebira, di 19 anni, che lavora alla
bottega di ceramica.
Qui c’è anche Issa, afghano di quarant’anni,
scappato dalla guerra:
«Un giorno», racconta, «i talebani
sono entrati in casa mia.
Avevo paura che volessero arruolarmi a
forza e sono scappato in Pakistan e da lì
in Iran, attraverso le montagne». Alcuni
trafficanti di esseri umani lo avevano rinchiuso
in un appartamento con altre 200
persone: avevano diritto a un bicchiere
d’acqua al giorno e a un pezzo di pane
ogni due. Con altri quindici è riuscito a
scappare in Turchia, dove si è imbarcato
a Smirne per l’Italia: un viaggio d’inferno,
di cinque giorni, senza cibo e con la nave
che imbarcava acqua. Il tutto per 4 mila
dollari. In Italia un’altra odissea, finché nel
2003 è arrivato a Riace: ha imparato vari
mestieri, prima la tessitura e ora la ceramica.
Certo, ha nostalgia della famiglia,
ma per il momento non pensa proprio
di andarsene da qui. Ci sono altri afghani
in paese con le loro famiglie, diverse donne
del Corno d’Africa, una famiglia di libanesi,
un indiano che lavora come pastore.
C’era anche un folto gruppo di palestinesi,
ma se ne sono andati in Svezia a raggiungere
le loro famiglie.
«Da diversi mesi», dice il sindaco,
«abbiamo dato la disponibilità ad accogliere
altri profughi che sbarcano a Lampedusa,
ma abbiamo l’impressione che
le istituzioni preferiscano utilizzare strutture
più costose e difficilmente gestibili,
come il campo di Mineo, vicino a Catania,
invece di distribuire i profughi sul territorio
in progetti di accoglienza più mirati
e meno onerosi».
Il Comune di Riace è stato uno dei
primi ad aderire al Programma nazionale
di asilo (Pna) e a ricevere i contributi
del Sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar): «Circa 24
euro al giorno per persona», precisa il
sindaco, «molto meno di quanto si spende
in grosse strutture spesso militarizzate.
Qui non abbiamo bisogno di militari
o polizia, perché puntiamo sull’accoglienza
e l’integrazione e su un concetto
di cittadinanza che significa tessere nuove
relazioni sociali».
«L’accoglienza è una cosa sacra»,
gli fa eco padre Salvatore Monte, missionario
scalabriniano che la sua terra
di frontiera l’ha trovata qui, tra mare e
monti, dove i popoli si incontrano. I
bambini lo seguono. Oggi sono previste
le benedizioni delle case; domani si
va tutti al mare. Poi c’è l’oratorio estivo
dove vanno tutti. In auto padre Salvatore
ci carica mezzo mondo. I bambini,
loro, non si fanno troppi problemi.
Si riconoscono, si bisticciano, si vogliono
bene per quello che sono, non per
il posto da cui arrivano. Anche padre
Salvatore sembra a suo agio: «Mi occupo
degli anziani del paese, così come
delle famiglie immigrate. Qui convivono
culture, religioni, tradizioni molto
forti e molto diverse, ma la gente si rispetta
e si sono create buone relazioni.
Noi cerchiamo di favorirle. La nostra
missione è qui».