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sabato 22 marzo 2025
 
solidarietà
 

I volontari che fecero l'impresa: 500 km sulla rotta balcanica per soccorrere i profughi

25/02/2021  Un gruppo di giovani guidati da due sacerdoti, don Edy Savietto e don Emanuele Cuccarollo, hanno sfidato ogni avversità per portare aiuti ai migranti intirizziti che bivaccano nelle foreste di Bihac, in Bosnia Erzegovina

da sinistra, don Edy Savietto, il frate croato Dragan e don Emanuele Cuccarollo.
da sinistra, don Edy Savietto, il frate croato Dragan e don Emanuele Cuccarollo.

(nella foto in alto, i volontari guidati da don Savietto e don Cuccarollo a Bihac. Tutte le foto di questo servizio sono del fotoreporter Luciano Covolo)

 

Venticinque ore di attesa alla frontiera. Un Tir carico di generi di prima necessità e indumenti pesanti bloccato al confine tra Croazia e Bosnia, a Bihac, città distrutta durante la guerra dei Balcani oggi diventata lo stretto collo di bottiglia per l’Europa per i profughi della rotta balcanica. Un gelido imbuto attraverso il quale nessuno passa e tutto si ferma.  «Il camion è arrivato fin qui per i poveri e da qua noi non ci muoviamo». Ripetendo come un mantra queste parole la tenacia di una ventina di volontari partiti da Treviso e Vicenza tra il 12 e il 15 febbraio scorso  è alla fine riuscita ad aprire un varco di solidarietà per far giungere gli aiuti a destinazione. Insieme a loro due sacerdoti, don Edy Savietto, parroco di Olmi e Cavriè in provincia di Treviso e don Emanuele Cuccarollo, parroco a Tavernelle nel vicentino. Un serpentone di buona volontà, guidato dall’associazione vicentina “Energia e sorrisi”,   per portare  aiuto ai migranti  che trovano riparo nei i rifugi improvvisati a meno dieci gradi sotto zero. 500 chilometri percorsi con un aiutoarticolato, due roulotte e due pulmini carichi di alimenti, sacchi a pelo, coperte, abbigliamento invernale, scarpe, prodotti per l’igiene personale, pannolini, e pappe per bambini. Prima tappa le città croate di Glina e Petrinja colpite dal terremoto.

Due profughi in una casa diroccata nei dintorni di Bihac.
Due profughi in una casa diroccata nei dintorni di Bihac.

Il viaggio è poi continuato verso le montagne della Bosnia-Herzegovina alla volta di Bihac, 25 mila abitanti,  avamposto della politica dei respingimenti, dove persino le missioni umanitarie si vedono costrette a dover fare marcia indietro: «Siamo stati scortati dalla polizia croata fino al confine bosniaco – racconta don Edy Savietto  - Anche se tutto era a posto per problemi burocratici il nostro camion è stato fermato al posto di blocco. Per riuscire a portare a destinazione gli aiuti abbiamo dovuto far arrivare un altro autoarticolato dalla Bosnia. Scaricare per ore ed ore tutto il materiale e sistemarlo nel camion giunto apposta fino a lì. Una volta sigillato, controllato il mezzo e affidato nelle mani delle associazioni di volontari del posto è potuto ripartire. Arrivato a Sarajevo è stato disigillato e controllato e volontari del posto hanno provveduto a distribuire gli aiuti ai profughi».

Appena una settimana prima un altro camion carico di aiuti umanitari dopo esser rimasto bloccato alla medesima frontiera per quattro giorni non aveva potuto far altro che ingranare la retromarcia. Invece questa volta le mani dei  volontari sono riusciti a scrivere un’altra storia. Raccontando la vita dei profughi in fuga da Pakistan, Bangladesh, Iran e Iraq incontrati all’interno di un’ex acciaieria abbandonata senza finestre e in diversi rifugi di fortuna: «Vicino al confine dei bosniaci ci hanno portato in un bosco dove ho visto scene che nemmeno nei gironi dell’inferno di Dante troverebbero posto – continua don Edy - Tanti, troppi ragazzi ammassati.  Diverse le loro provenienze: Pakistan, Bangladesh, Iran, Irak. Impossibile dire quanti sono. Perché la situazione è fuori controllo. Stanno dentro a tuguri fatti di teli tenuti insieme da corde improbabili. Ripari di fortuna, dove la temperatura si aggira attorno ai meno dieci gradi. Con tutte le finestre e le porte sfondate. Loro dicevano a noi “Good luck”, buona fortuna eppure non hanno nulla. La maggior parte porta solo i segni delle botte prese dalla polizia per il solo fatto di aver cercato una via d’uscita dall’inferno in cui sono caduti». Tanti di loro nella fuga si ritrovano d’improvviso di passaggio in proprietà private: «Ognuno di noi ha un giardino. Immaginate di trovarci una mattina dieci, venti ragazzi  lì senza nulla, fuori al freddo. Cosa fate?», si chiede don Edy.

Ma la buona volontà non è che una goccia nel mare dell’emergenza. E quando si gela anche i cerchioni delle ruote dei camion  usati come stufe per provare a scaldare almeno l’acqua per lavarsi tornano buoni. Mentre il fumo nero che ne esce porta dentro quintali di diossina. Ed è qui che i volontari incontrano Mohammed, un ragazzo di 17 anni afgano che da  un po’ di tempo prova e riprova a passare il confine per arrivare magari in Belgio, in Germania o in Francia. Con addosso il sogno di cominciare a studiare, visto che nel suo Paese  per colpa della guerra ha perso tutto. A Bihac intanto il fiume gelido continua a scorrere. Per i profughi è diventato l’unico posto dove potersi lavare: «Mentre stavamo partendo un ragazzo si è avvicinato e ha dato a uno di noi una caramella – raccontano i volontari - Quasi a dire “Lo so, non ce la fai, torna indietro e tieni in bocca qualcosa di dolce per l’amaro che hai masticato. Noi rimaniamo qui, siamo abituati, non molleremo. Ci ritenteremo perché indietro non possiamo tornare. Solo avanti. Erano loro a dire a noi “Good luck”. E noi, che siamo parte dell’Europa, siamo chiamati a fare tutto il possibile per raccontare quello che sta succedendo. In quell’inferno abbiamo visto la morte della nostra civiltà. Che ci insegna che il fratello che ha più bisogno dev’essere tenuto sott’occhio, sempre. E questo lo abbiamo dimenticato, come se tutto quello che sta succedendo fosse normale». Di ritorno in Italia nel giorno della solennità del mercoledì delle Ceneri la scelta forte di don Edy di mischiare alle Sacre ceneri la cenere raccolta dai fuochi dei profughi nei boschi nei dintorni di Bihac: «In quelle ceneri ci sono le vite sepolte e abbandonate di quei ragazzi che aspettano il pieno diritto alla vita».

 

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