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Per sbloccare “il caso Regeni”, il ricercatore sequestrato torturato e ucciso al Cairo 18 mesi fa, e giustificare il ritorno dell’ambasciatore italiano, può bastare la trasmissione da parte della Procura del Cairo alla Procura di Roma di alcuni verbali (in arabo, non ancora tradotti, dunque non sappiamo cosa ci sia dentro)? Si tratterebbe (il condizionale è d’obbligo) degli interrogatori dei poliziotti che indussero il venditore ambulante Mohamed Abdallah a denunciarlo alla polizia e di altri colleghi che fecero accertamenti sulla morte del giovane (forse gli stessi). Gli inquirenti capitolini parlano di passo avanti. Ma il passo è tale da giustificare quella che i genitori di Giulio chiamano, indignati per le modalità e la tempistica dell’operazione ferragostana, “una resa incondizionata”?
La notizia ha portato alla decisione del ministro degli Esteri, Angelino Alfano, di inviare al Cairo l'ambasciatore Giampaolo Cantini. Il premier Paolo Gentiloni ha incaricato il diplomatico di "contribuire alla azione per la ricerca della verità sull'assassinio di Giulio Regeni". Perplessità sono state espresse anche da Amnesty International, che ha parlato di rinuncia da parte del governo "all'unico strumento di pressione per ottenere verità nel caso di Giulio Regeni di cui l'Italia finora disponeva". In un comunicato congiunto le due Procure annunciano un incontro tra inquirenti egiziani e italiani.
Nonostante l’ottimismo della Procura di Roma ci limitiamo ad osservare che il caso Regeni è costellato da un’infinità di omissioni, misteri, pantomime e persino prese in giro da parte delle autorità e degli inquirenti egiziani. Inquirenti tra i cui apparati – è quasi certo – si nascondono i brutali torturatori e gli assassini del ricercatore italiano, trattato, sia detto per chiarezza, peggio di un Cristo in croce, come ha dimostrato l’autopsia del suo corpo.
Dunque cosa ha mosso il Governo a questo passo certamente al buio, non privo di conseguenze, interrompendo la linea della fermezza? Ha prevalso la ragion di Stato, che significa riprendere contatti diplomatici con uno Stato fondamentale nel “grande gioco” che l’Italia si appresta a effettuare in Libia e incrementare un interscambio commerciale di oltre 5 miliardi di euro (l’Italia rappresenta l’8 per cento dell’export egiziano)? O ci si è resi conto che la linea della fermezza, con un regime non certo modello di democrazia e tolleranza come quello di Al Sisi, era ormai a un punto morto? Il premier Gentiloni, che ha telefonato alla famiglia del ricercatore, ha promesso che l’ambasciatore farà di tutto per arrivare all’accertamento della verità. Che nel caso di Giulio significa anche consegnare alla giustizia i suoi aguzzini. Ci auguriamo che sia davvero così. Non ci sono solo le ragioni e l'infinito dolore di una madre che ha diritto a verità e giustizia. C’è anche il precedente inaudito di un cittadino italiano sequestrato, torturato e ucciso dagli apparati di sicurezza di un Paese che definiamo “amico”. Quel che è successo a Giulio in linea di principio potrebbe accadere a chiunque di noi si recasse in Egitto. Può lo Stato italiano consentire ciò?





