Qui e in copertina il dottor Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018 (tutte le foto di questo servizio sono di Francesco Cavalli e Alessandro Rocca).
«Là dove si trovano le miniere di coltan e oro, là si trovano i gruppi armati che si combattono per controllarle: là avvengono gli stupri. Il conflitto che ha luogo in Congo è per il controllo delle sue risorse naturali».
È uno dei passaggi della lunga intervista esclusiva rilasciata dal dottor Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018 insieme a Nadia Murad, a Famiglia Cristiana. In queste righe ne riportiamo qualche passaggio. L’intervista completa si trova nel numero 21 della rivista, in edicola da giovedì 23 maggio, a cui è dedicata anche la copertina del settimanale.
Roma, 22 maggio 2019. Denis Mukwege con papa Francesco in Piazza San Pietro, al termine dell'udienza generale. Tra loro, don Ampelio Crema, presidente del Centro culturale San Paolo. Foto Ansa.
L’intervista viene pubblicata in occasione della visita in Italia del Premio Nobel per la Pace 2018 (il prestigioso riconoscimento gli è stato conferito nel dicembre scorso), visita che gli ha permesso di incontrare a Roma Papa Francesco, a margine dell’udienza del mercoledì a cui Mukwege aveva partecipato; di tenere una conferenza presso la sede del nostro giornale all’Auditorium San Paolo di Milano; e di partecipare a un incontro al Festival Biblico, a Vicenza, sabato 25 maggio (alle 21,00 nel cortile della Chiesa di Santa Corona).
Milano, 22 maggio 2019. Denis Mukwege con il direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Rizzolo, nella sede della Periodici San Paolo.
Mukwege è ormai giunto a operare oltre 50 mila donne, ragazzine e anche bambine brutalmente stuprate, con tanta violenza che lo stesso dottore nell’intervista definisce la casistica su cui si trova a intervenire «una nuova patologia: la violenza sessuale accompagnata da violenza estrema».
L'interbo dell'ospedale di Panzi, alla periferia della città di Bukavu (Repubblica democratica del Congo), dove opera Mukwege. La parete fotografata è di recente costruzione: serve a proteggere la parte dove il medico ha il suo studio. Mukwege infatti ha già subito la distruzione dell'ospedale precedente dove lavorava (fino al 1999), e un tentativo di omicidio.
Lui stesso, nell’intervista racconta ciò che si trova sotto gli occhi in sala operatoria: donne torturate e brutalizzate al di là dell’immaginabile, al punto da essere fisicamente devastate. «Tutte riferiscono la stessa storia», dice il ginecologo. «Di aver subìto stupro di gruppo e violenze di ogni sorta, tanto estreme che presentavano ferite, lacerazioni, ustioni, conseguenze di colpi d’arma da fuoco nei genitali. Non avevo mai visto cose del genere».
Ancora uno scorcio della Fondazione Mukwege, creata dallo stesso ginecologo per sostenere dal punto fi vista psicologico e reinserire da quello sociale e lavorativo le donne vittime di violenza.
Il medico è stato insignito del prestigioso riconoscimento non solo per il suo impegno più che ventennale come chirurgo nella ricostruzione dei terribili danni conseguenti allo stupro, ma anche perché ha sempre accompagnato alla cura delle pazienti anche la denuncia delle cause di questo fenomeno, che vede nella regione congolese dove opera – il Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo – il luogo al mondo dove avviene il maggior numero di violenze sessuali in rapporto alla popolazione.
«Dobbiamo curare», spiega, tra l’altro, nell’intervista di Famiglia Cristiana, «anche bambine e bambini. Da qualche anno le donne che vengono da noi hanno figli piccoli, e spesso sono anche loro, e persino i neonati, ad aver subito violenza sessuale. Un nuovo livello di atrocità».
Un particolare del mercato principale di Bukavu (RD Congo), città adagiata sul lago Kivu al confine col Ruanda.
Mukwege indica chiaramente i responsabili: «Si sa chi sono: gruppi armati e soldati dell’esercito governativo. Il problema è che vige un totale stato di impunità che, se finisse, porterebbe a una sensibile diminuzione dei casi».
Le parole del Premio Nobel ne sottolineano soprattutto l’umanità e la tenerezza verso tutte e ciascuna delle sue oltre 50 mila pazienti. Dice, ad esempio: «Anni fa, fu ricoverata un’anziana. La donna aveva subito dalla violenza gravi complicazioni. Siamo riusciti a riparare le sue lesioni. Ma col passare del tempo fu chiaro che le cure mediche non bastavano. Il suo corpo guariva, eppure non voleva muoversi, parlare o mangiare. Abbiamo capito il perché: questa donna, che era madre e nonna, era stata violentata di fronte alla sua famiglia. Sentiva un’immensa vergogna e uno stigma sociale. Questo caso mi ha aperto gli occhi sulla necessità di un approccio più olistico all’assistenza alle vittime. Lo stupro non distrugge solo i corpi, ma spezza l’anima e rompe il rapporto con i familiari. I sopravvissuti hanno il diritto al sostegno che li aiuti a riprendersi completamente, e non solo per l’aspetto medico. Ogni donna con cui ho avuto a che fare ha avuto in sé stessa una capacità di recupero incredibile per superare il trauma».