Incontriamo il vescovo Christian Carlassare a Roma qualche giorno fa per frequentare il corso dedicato ai nuovi vescovi. Padre Christian, missionario comboniano, classe 1977, dall’8 marzo 2021 è vescovo di Rumbek, nel Sudan del Sud. È salito all’onore delle cronache perché la notte del 25 aprile 2021, due anni e mezzo fa, a meno di un mese dalla consacrazione episcopale (avvenuta poi il 25 marzo 2022), ha subito un attentato nella canonica del suo episcopio da due uomini armati, che lo hanno prima picchiato e poi lo hanno bersagliato con quattro colpi di fucile alle gambe. Ferito per fortuna non in modo serio, è guarito e si è rimesso in pista. Prima del suo ritorno in Africa gli porgiamo qualche domanda.
Padre Christian sei un comboniano e vescovo da poco più di un anno. Che cosa ha significato essere nominato vescovo, e così giovane?
«È stata una chiamata che non avevo previsto. È arrivata mentre ero in servizio come vicario generale nella diocesi di Malakal. Mi ha chiesto di abbandonare legami affettivi e progetti per accostarmi al cammino di un’altra diocesi quella di Rumbek anche lei nel bisogno. Ho sentito questa chiamata all’episcopato come una consacrazione ancora più radicale e profonda alla missione in Sud Sudan sulle orme di San Daniele Comboni che ha dato la vita per l’evangelizzazione per questa parte di umanità. La giovane età parla della mia fragilità di cui il Signore si saprà servire con forza per parlare a una nazione molto giovane e piena di vitalità nonostante tutto».
C’è stato un attentato ed eravamo col fiato sospeso ad attendere notizie. Come stai ora?
«L’attentato è stato un fatto molto doloroso che non ha ferito solo me, ma anche tutta la comunità cristiana. D’altro canto è stato un momento di grazia perché il Signore si è fatto presente e ha saputo trarre il bene anche da un evento così. La comunità cristiana si è raccolta insieme, ha rafforzato i legami di comunione e solidarietà fra sacerdoti, missionari e laici. Oltre alle cure mediche che mi hanno permesso di recuperare bene, questa fraternità possibile sta curando le ferite del cuore».
Hai perdonato subito. Che cosa distingue il perdono dalla giustizia?
«Sì, ho perdonato subito. È stata una ispirazione che mi ha donato una grande libertà e mi ha permesso di superare ogni possibile sentimento di rabbia ma soprattutto la frustrazione per quanto successo e la paura di tornare. Pensiamo che chiedere giustizia possa riparare il torto ricevuto. Ma niente può davvero risanare le ferite personali e sociali se non il perdono. È solo il perdono che apre le braccia all’altro e permette di intraprendere insieme un nuovo cammino, quello della comunione e della pace. Allora il perdono ci apre a una giustizia più alta pur chiamando tutti alla responsabilità».
Dalle immagini e dai messaggi sembri contento, quasi ti divertissi. La gente ti ha accolto bene?
«La vita missionaria mi dà una grande gioia: sono a casa con me stesso insieme a tanti fratelli e sorelle e tutto, anche i gesti più semplici, sono così preziosi e belli! Sono profondamente grato per quanto vivo ogni giorno: amo e mi sento amato. In Africa l’accoglienza è un valore di vitale importanza: si accoglie l’altro nel bisogno con gesti concreti che mostrano la preziosità di ogni vita».
Quali sono le tue gioie più grandi? E le preoccupazioni?
«La gioia più grande è quella di condividere il cammino del popolo del Sud Sudan – S. Daniele Comboni direbbe “far causa comune con loro” – e notare come nella comunità fiorisce la fraternità. I semi di bene germinano nel cuore delle persone e danno frutti, e queste a loro volta diventano responsabili di una semina ancora più vasta. Non è qualcosa di immediato, richiede tempo e sacrificio. Ma alla semina segue sempre la raccolta tanto più abbondante quanto generosa la semina. Ho per esempio sperimentato una grande gioia nell’ordinare sei nuovi sacerdoti. La preoccupazione più grande è quella di non lasciarsi addomesticare dalla mentalità mondana, di non accontentarsi con quanto gratifica e ci fa sentire al sicuro, di non confondere la gente con scelte che sono in contraddizione con il Vangelo che predichiamo».
Cosa fa un vescovo a Rumbek in Sud Sudan?
«Il fratello maggiore a servizio degli altri fratelli per mantenere la famiglia unita. Non ho orari d’ufficio o condizioni. Sono disponibile e accessibile a tutti in ogni momento. Primo compito è la preghiera per il popolo di Dio. Secondo l’evangelizzazione, la catechesi, l’insegnamento. Terzo la visita alle comunità cristiane e anche alle persone, specie quelle più fragili, perché possano toccare il loro vescovo, parlargli, essere ascoltate. Poi la celebrazione dei sacramenti che sono momenti di grazia per la vita della comunità. E infine la moderazione della comunità che si apre al servizio, chi nella pastorale attiva, chi nel servizio della giustizia e della pace, chi nell’istruzione, chi nella cura dei malati, chi nello sviluppo umano ed economico».
Com’è la situazione religiosa e politica del paese?
«Dopo anni di conflitto c’è un accordo di pace e un governo di unità nazionale che ha posto fino alle violenze. Ma la povertà e la fame rimangono come delle ferite aperte che non sono facili da rimarginare. La pace è un dono fragile che va custodito. È un cammino che va percorso insieme senza escludere nessuno. C’è pace solo nell’inclusione. Dal punto di vista della fede, i Sud Sudanesi hanno un animo profondamente religioso. Sanno che la vita non ci appartiene, ma è un dono di Dio e va vissuta senza possederla, ma va donata con generosità».
È venuto il Papa, ma anche il cardinale Parolin. Che cosa hanno lasciato come cammino?
«Hanno lasciato tre parole molto importanti. La prima parola è dialogo che si fa prima di tutto ascolto e poi discernimento comune nella conoscenza reciproca. Un dialogo che deve essere inclusivo senza escludere nessuno: senza favorire un gruppo su un altro, ma nella coscienza che siamo tutti fratelli sulla stessa barca. La seconda parola è impegno: fatti e non solo parole, significa che le buone intenzioni non bastano ma occorre uno spirito sincero e generoso di servizio. Ognuno ha la responsabilità di cominciare un nuovo cammino, iniziare a fare le cose diversamente, lavorare per il cambiamento. La terza parola è insieme: nessuno infatti si salva da solo».
Noi, qui, dall'Italia come possiamo essere di aiuto? Non sto parlando solo di soldi ...
«Prima di tutto con la preghiera e la testimonianza di fede e vita cristiana là dove siamo. Dobbiamo abbattere i muri che ci separano dagli altri; muri che ci abituano a vivere una vita egocentrica ed individualista. Dobbiamo andare incontro agli altri, permettere loro di venirci incontro e vivere profondamente radicati nella realtà; non chiudere gli occhi: ci sono ancora povertà e fame. Ci sono grandi disuguaglianze nel mondo: una crescente polarizzazione e tanta, troppa, violenza, compresa quella delle armi il cui mercato non sembra finire. Il mondo, per sopravvivere, ha bisogno di uomini e donne pronti/e a curarne le ferite».