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«In soffitta come Anna Frank, ma salvi»

27/01/2022  Maria Andreina Cenini, nostra lettrice di Brescia, ci racconta come la sua famiglia nascose per 14 mesi due ebrei in fuga

Si cominciò nel 1938 con le leggi razziali, poi anche in Italia, con l’occupazione nazista, gli ebrei cominciarono a essere rastrellati e deportati. Ma molti di loro poterono salvarsi grazie a una rete di solidarietà e a gesti singoli di italiani che scelsero semplicemente di fare la cosa giusta, pur mettendo in pericolo la loro stessa vita. Una di queste storie ce la racconta una nostra lettrice di 91 anni, Maria Andreina Cenini, che nel 1943, quando la sua famiglia nascose due ebrei, aveva 13 anni, l’età di Liliana Segre quando fu portata ad Auschwitz. Vive a Brescia con una dei tre figli, è una fedelissima abbonata, ha insegnato per oltre 40 anni alla scuola primaria e si è distinta per il suo impegno nel mondo cattolico, tanto da essere la presidente dell’Azione cattolica di Chiari.

«La nostra storia ricorda un po’ quella di Anna Frank, anche se in questo caso ha avuto un esito positivo. Mio padre, Pietro Cenini, era un antifascista, fondatore della formazione partigiana Fiamme verdi che operava nella bassa Bresciana. Tra le loro operazioni il salvataggio di ebrei, soldati cechi, ex prigionieri di guerra dopo l’8 settembre 1943. Gli ebrei venivano aiutati a raggiungere la Svizzera passando dalla Val Cavallina, e mi capitò anche di ricevere piccoli incarichi, poiché appena tredicenne passavo più facilmente inosservata. Il 13 novembre 1943 mio padre uscendo di casa vide disegnati sulla porta due teschi. Era una minaccia alla sua vita e decise di allontanarsi raggiungendo la Val Trompia, dove sapeva di trovare un rifugio sicuro. Poco dopo la sua partenza una pattuglia della guardia repubblicana venne a cercarlo, anche se era sera dopo il coprifuoco. La casa fu messa sottosopra, inutilmente. Lui era in salvo, ma noi vivevamo nella paura. Dieci giorni dopo arrivò con l’ultimo treno da Milano nostra cugina Ninì Secchi, accompagnata dal suo fidanzato Luciano Pavia, 32 anni, e sua madre Irma Levi Pavia. Erano ebrei. Piangendo ci disse che era riuscita a salvarli da una retata a Ponte Lambro e pregò mia madre, Santina Bottinelli, di nasconderli a casa nostra dicendoci che nostro padre le aveva assicurato che in caso di necessità poteva contare sul nostro aiuto. Mia madre, pur facendo presente che eravamo sorvegliati e che poteva esserci un’altra perquisizione, disse che li avrebbe ospitati confidando nell’aiuto di Dio. Li sistemò nella stanza di noi figlie, che ci trasferimmo tutte nella sua. I due ospiti rimanevano chiusi in camera tutto il giorno, e solo dopo il coprifuoco ci raggiungevano per cenare. La cosa andò avanti per due settimane, quando ci arrivò una lettera anonima in cui si diceva che correva voce che ospitassimo degli ebrei. Non erano più al sicuro. Riuscimmo a comunicare con nostro padre che allertò la madre e il fratello affinché ospitassero i due ebrei nella loro villa alla periferia di Chiari. Furono confinati in soffitta e solo la sera potevano uscire in terrazza a prendere un po’ d’aria. Agli inizi del marzo 1945 anche lo zio Angelo era in pericolo di arresto, allora la signora Pavia rimase con la nonna, mentre Luciano fu trasferito nella casa di uno zio prete di mio padre, don Giacomo Cenini, dove nessuno sarebbe andato a cercarlo. La loro “prigionia” finì solo con la Liberazione».

In seguito, Luciano, che era ragioniere alla Montecatini, riprese il lavoro e si sposò. Ebbe delle figlie con cui Maria Andreina è rimasta in contatto fino a oggi. E la signora Irma, che era una pittrice, le regalò un suo dipinto per il suo matrimonio. Dopo la guerra Pietro Cenini è entrato in politica nella Democrazia cristiana, è stato per 25 anni sindaco di Chiari e per tre legislature senatore della Repubblica. La sua città gli ha intitolato un viale. «In occasione del mio terzo viaggio in Palestina», conclude Maria Andreina Cenini, «durante il quale ho visitato anche il Museo della Shoah, ho proposto che mio padre entrasse nel Giardino dei giusti di Gerusalemme. Il comitato che doveva esaminare la pratica mi aveva risposto chiedendomi ulteriori documenti che però non ero in grado di esibire e così la faccenda si è arenata, ma mio padre ai miei occhi e a quelli della sua comunità rimane moralmente un giusto. Quello che fece lui e la mia famiglia fu dettato dal rispetto per la vita umana e dal diritto di ciascuno di esistere e di vivere liberamente la propria vita, in accordo con il comandamento cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Per tanti anni abbiamo taciuto il nostro gesto, eravamo una famiglia coraggiosa ma schiva, e per noi era semplicemente una cosa che andava fatta».

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