I ragazzi si fidano di noi più di quanto pensiamo. E ci chiedono aiuto molto più di quanto, dietro la nostra cattedra, a volte riusciamo a vedere. Spesso non usano le parole: è il linguaggio del corpo a parlare. Mani strette sotto il banco, occhi lucidi o abbassati, muscoli del viso contratti che vorrebbero gridare. Eppure noi, troppe volte, non abbiamo tempo di vedere né di ascoltare: c’è il programma da portare avanti. Quando però, come nel caso del giovane Paolo Mendico, il quattordicenne che si è suicidato lo scorso 11 settembre, il primo giorno di scuola, nella sua casa di Santi Cosma e Damiano, in provincia di Latina, quei gesti e quegli sguardi trovano il coraggio di diventare parole, tutto dovrebbe passare in secondo piano. Tutto dovrebbe fermarsi ed essere accolto. Invece ricadiamo negli stessi meccanismi. Il tempo è poco, ci sono i protocolli, la burocrazia e, alla fine, ci deresponsabilizziamo. Si raccomanda al ragazzo di segnalare l’accaduto alla commissione bullismo o, al limite, di lasciare un messaggio nella cassetta antibullismo. Intanto il tempo passa, mentre si attende che qualcuno prenda in mano la situazione. A volte si arriva alla fine dell’anno scolastico senza neanche salutarsi, senza chiedersi se quella questione, il bullismo sentito, percepito, vissuto, abbia davvero trovato ascolto. Poi accade l’impensabile.

A settembre, il primo giorno di scuola, il giovane si toglie la vita pur di non rientrare in quelle mura. Allora tutto appare per ciò che era: una tragedia annunciata. Una tragedia in cui il rimpallo di carte e responsabilità ci permette di dire di avere la coscienza a posto, anche se sappiamo benissimo che non è così. Quello che è accaduto è terribile e non dovrebbe mai succedere. Il bullismo non è mai un fatto “secondario” o una semplice “ragazzata”: mina la dignità, isola, ferisce in profondità. Come comunità scolastica dobbiamo imparare a riconoscere subito i segnali di disagio, ad ascoltare senza minimizzare e ad agire in modo tempestivo. La scuola avrebbe dovuto essere un presidio di protezione, un luogo in cui lo studente e la sua famiglia trovassero accoglienza e risposte immediate. Invece, come emerge dalle indagini degli ispettori del Ministero dell’Istruzione, l’inerzia è diventata complicità e, come si legge nella loro relazione, la scuola avrebbe potuto e dovuto fare di più.

Probabilmente è vero e sarà ora la magistratura a verificarlo. Ciò che però oggi il ministro Valditara dovrebbe chiedersi è: gli strumenti a disposizione, le “armi” date agli insegnanti, sono davvero quelle necessarie? Non andrebbero rilette e magari snellite le migliaia di circolari, direttive e protocolli che spesso contengono buone intuizioni ma pochi strumenti concreti? Non andrebbero forse stanziati e investiti più fondi affinché le nostre scuole diventino davvero luoghi sicuri e accoglienti? Se non si invertirà questa direzione di scarsa visione e di insufficiente investimento sulla scuola, essa rischierà di assomigliare a un ponte che tutti sentono muoversi, vacillare, scricchiolare, fino a crollare, come il ponte Morandi, e solo allora tutti diranno “Lo sapevamo”, cercando le colpe a posteriori. Come un ponte crollato, la tragedia di questo giovane interpella tutti: governo, ministri, dirigenti, insegnanti, famiglie, studenti. Ognuno ha una responsabilità. Perché nessuno dovrebbe mai sentirsi solo di fronte alla violenza o all’umiliazione.