Lunedì 11 marzo resterà una data storica per l’India: è entrata in vigore la legge che consente la regolarizzazione nel Paese solo ai migranti non musulmani provenienti da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan. Paesi a maggioranza mussulmana. La norma è un'evidente discriminazione dei migranti musulmani, e in India è da molti considerata un simbolo delle politiche sempre più anti islamiche e nazionaliste indù del governo del primo ministro Narendra Modi. Da giorni le associazioni studentesche dell’Assam, nel Nord Est dell’India, bruciano pubblicamente le copie di una nuova legge. Per contrastarla è stato promosso uno sciopero generale che ha bloccato il West Bengala, dove la governatrice Mamata Banerjee ha promesso che non applicherà la legge, così come nel Tamil Nadu, dove il celebre attore e guida politica di opposizione Thalapathy Vijay ha definito la legge come “inaccettabile”. Anche il governatore del Kerala, Stato da sempre schierato con il partito di opposizione del Congress, non intende applicare la norma.
Questa tuttavia non è l’unica legge del genere approvata dalla “democrazia più grande del mondo”: in vista delle elezioni legislative che si terranno tra aprile e maggio il governo nazionalista Modi ha approvato diverse riforme che da un lato favoriscono l’elettorato del suo partito, il Bharatiya Janata Party (BJP), un movimento ultra-nazionalista indù. Dall’altro Modi ha, nei 10 anni di governo, minato la libertà di stampa: emblematica è la vicenda della giornalista di La Croix Vanessa Dougnac invitata a lasciare il Paese dopo ventitré anni perché accusata di svolgere “attività dannose e critiche”. Modi negli anni ha perseguito e silenziato diversi giornalisti locali. Il governo targato BJP ha anche messo in difficoltà l’opposizione, sistematicamente indebolito i diritti delle minoranze - compresa quella cristiana - e represso con violenza il dissenso grazie anche alla riforma del codice penale, approvata lo scorso dicembre e che dovrebbe entrare in vigore nel corso dell’anno, che darà poteri molto ampi e arbitrari alla polizia e alle autorità statali.
A riguardo è emblematico quanto già accaduto - all’inizio di febbraio -, con i funzionari del Central Bureau of Investigation - la polizia federale indiana - che hanno devastato l’ufficio del Centre for Equity Studies (un centro che sostiene le politiche inclusive) di New Delhi. Il Centro è stato accusato di irregolarità finanziarie, così come il suo fondatore Harsh Mander che è uno dei critici più severi di Modi. Come lui anche Hemant Soren, ex governatore dello Stato del Jharkhand - ed esponente del partito di opposizione Fronte di liberazione del Jharkhand -, a metà gennaio è stato arrestato dall’agenzia antiriciclaggio non appena si è dimesso dall’incarico.
Le azioni di repressione anche violenta negli ultimi anni hanno “alzato il rito” colpendo anche Hindutva Watch e India Hate Lab, tutti e due progetti di ricerca internazionali con sede negli Stati Uniti che documentano i crimini d’odio verso le minoranze religiose nel paese. Entrambi - prima di avere gli uffici distrutti e i siti chiusi - avevano pubblicato alcune ricerche che mostravano come gli episodi di violenza contro i musulmani in particolare e le altre minoranze fossero aumentati anche del del 400% in pochi anni, a partire dal 2014. L’anno della prima elezione a premier di Modi.
In primavera Narendra Modi, figlio di un venditore di tè in una piccola stazione ferroviaria del Gujarat e lui stesso chaiwala (il ragazzo del tè) quando usciva da scuola - origini umili di cui Modi fa sfoggio, vantando una connessione diretta con il popolo -, proverà a ottenere il terzo mandato consecutivo, continuando il disegno iniziato da governatore del Gujarat [per tre mandati] e poi da primo ministro di costruire una “nuova India”. Trasformando il Paese da laico a induista. In quest’ottica risale allo scorso 22 gennaio la partecipazione del premier alle grandiose celebrazioni per la consacrazione del tempio di Rama nello stato dell’Uttar Pradesh, nel Nord del Paese, che è stato costruito proprio dove trent’anni fa 150 mila induisti distrussero un’antica moschea risalente al 1500 segnando uno dei momenti più evidenti della lacerazione dei rapporti in India tra induisti e musulmani che sono più di 200 milioni, circa il 15 per cento della popolazione totale.
Per impedire una terza vittoria elettorale di Modi una coalizione di 26 partiti politici si è compattata in un movimento dall’acronimo emblematico: I.n.d.i.a. La sigla sta per Indian National Development Inclusive Alliance, ovvero l’Alleanza inclusiva indiana per lo sviluppo nazionale.
Questo è il contesto che avvicina gli indiani al voto, ma nella tornata elettorale si sommano anche interessi internazionali, con un Modi che “vende” all’estero il fatto che l’India sia la democrazia più grande del mondo e l’unico Paese asiatico in grado di proporsi come l’anti-Cina. In quest’ottica, la riabilitazione di Narendra Modi presso la Casa Bianca ha a che fare con l’obiettivo congiunto di Washington e New Delhi di frenare l’agenda espansionistica di Pechino nel sud-est asiatico.
Eppure ci sarebbe grosso limite, ignorato al momento in chiave internazionale - per avvallare completamente questo asse indo-americano: ovvero la Russia di Putin. I legami storici tra l’India e Mosca, che fornisce quasi l’80% delle armi indiane, hanno fatto sì che Modi non abbia mai condannato l’invasione dell’Ucraina di Vladimir Putin. Di più: nel corso degli ultimi due anni New Delhi è diventata la più grande acquirente di petrolio russo a buon mercato.