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sabato 09 novembre 2024
 
 

«Palestinesi, rifugiati a vita»

10/02/2013  Parla Filippo Grandi, direttore dell'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. "La politica aggressiva di Israele", dice, "nuoce alla sua stessa sicurezza". FOTOGALLERY

«È da quando sono nato che sento parlare di questo conflitto, come tutti. Sono un funzionario delle Nazioni Unite, e cerco costantemente di essere equilibrato, ma qui ci si rende conto dell’ingiustizia profonda che viene perpetrata verso i palestinesi. Un’ingiustizia molto grande e molto grave».

Parole che pesano. Anche perché pronunciate dal direttore dell’Unrwa, l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Il capo dell’Agenzia è un italiano, Filippo Grandi, ed è tra l’altro il nostro connazionale al più alto grado nel sistema Onu.

«È bene chiarire», continua, «che l’Onu considera gli insediamenti dei coloni israeliani illegali. Tutti. Compresa l’annessione di Gerusalemme Est, che dovrebbe essere palestinese. Quell’annessione, avvenuta nel 1968, non è riconosciuta da nessuno, neanche dagli Stati Uniti».

– Eppure gli insediamenti continuano…

«È un fatto grave. Il disegno complessivo mira, con gli insediamenti, a installare una rete non più eliminabile. Israele sta di fatto spezzando in due la Cisgiordania. Non c’è nessuna voglia di terminare questa avanzata. La tolleranza e – diciamolo – l’incoraggiamento che il governo israeliano dà all’occupazione comporta anche la necessità di proteggere i coloni. Ovviamente, non giustifico in nessun modo la violenza verso di loro, però è chiaro che continuerà ad accadere. Intorno ai coloni c’è un apparato militare di protezione spaventoso. La realtà è che c’è mezzo milione e più di coloni e la necessità di tutelarli. Il caso emblematico è la città di Hebron: ci sono 400 coloni e, per proteggerli, un dispiegamento militare impressionante».

– C’è chi sostiene che il vero scopo degli insediamenti è l’occupazione militare.

«Questa è già una valutazione politica».

– Con quali conseguenze sul processo di pace?

«Pesantissime. Ogni casa che i coloni costruiscono è un passo indietro rispetto alla pace».

– A Gaza, invece, la situazione è del tutto diversa.

«Sì. È un milione e 700 mila persone concentrate in un fazzoletto di terra. Fino al 2005 c’era colonizzazione anche a Gaza: 40 mila coloni occupavano la metà della Striscia, i palestinesi stavano tutti nell’altra metà. Questo rende l’idea del tipo di segregazione che si è realizzato qui. Poi Sharon, nell’ultimo anno da capo del governo, ha deciso unilateralmente di ritirarsi. Ed è prevalsa la strategia di sigillare la Striscia di Gaza».

– Qual è il compito dell’Unrwa?

«Si occupa dei profughi palestinesi, che sono 5 milioni, sparpagliati in quattro Stati diversi: Giordania, che ne ospita quasi due milioni fin dal 1948; Siria, 500 mila; Libano, 300 mila. Il resto sono qui, fra Territori occupati  e Gaza, dove c’è la maggiore concentrazione: 1,2 milioni, due terzi della popolazione totale della Striscia. In questo momento, ovviamente, la massima emergenza è per i rifugiati in Siria. Abbiamo 500 mila persone da seguire, che sono sotto il nostro mandato. Oltre all’assistenza normale – sanità e scuola – che ora è difficile, abbiamo anche un programma di emergenza completo: distribuzione di viveri e di beni di prima necessità per i più vulnerabili. E abbiamo 17 mila rifugiati che si sono spostati in Libano, diventando – se possiamo dire così – rifugiati di secondo livello».

– I rifugiati palestinesi sono una categoria piuttosto particolare, molti di loro lo sono da più di 60 anni.

«Ormai sosteniamo profughi di terza e quarta generazione. L’Unrwa opera dal 1950. Questo è un conflitto talmente vecchio, lungo, complicato, che c’è la tendenza nell’opinione pubblica non dico a dimenticarlo, ma a metterlo da parte. È irrisolto per definizione. In questi sette anni mi sono convinto che, invece, non lo si può ignorare mai, e non solo per ragioni geopolitiche, ma perché è nel mezzo della nostra coscienza storica, culturale, spirituale, ma anche perché praticamente questo conflitto ha sempre delle conseguenze. Basti pensare quanto questa guerra ha pesato sul conflitto civile libanese, oggi in Siria, ieri in Giordania, persino nelle guerre del Golfo. Spesso mi chiedono qual è la cosa più urgente. È risolverlo. Può sembrare una risposta banale, ma non è affatto».

– Allora, una domanda banale. Come risolverlo?

«Lo sanno tutti, è stato scritto in migliaia di volumi. Bisogna negoziare, ma bisogna volerlo davvero. Servono pressioni sulle due parti, ma soprattutto su Israele. Pressioni che nessuno vuole esercitare. Lo Stato d’Israele ha pieno diritto di esistere, ma dentro i confini riconosciuti. Questo tipo di politiche molto aggressive e discrimininatorie che alcuni governi israeliani hanno promosso sono controproducenti per la stessa sicurezza dello Stato d’Israele. Alla fine le politiche d’isolamento di Gaza hanno peggiorato la situazione, rispetto al fatto che ci fossero rapporti economici e commerciali, che alla fine creano legami positivi. Qui si sono dovuti difendere da sempre, ma il problema non si risolve aggredendo, a meno che non si metta in preventivo che lo Stato israeliano per sempre si garantirà l’esistenza con la forza militare e i muri intorno. Ma non è un futuro che io auspico per i giovani israeliani».

– Il Muro innalzato per separare Israele dalla Cisgiordania da questo punto di vista è emblematico?

«Sì. Anche perché va considerato un fatto: se uno vuole costruirsi un muro intorno, sono fatti suoi. Ma in questo caso è come se l’Italia, volendo edificare una barriera, andasse a farla in territorio svizzero».

– Che senso ha un’emergenza che dura 63 anni?

«Agli inizi era un lavoro di emergenza classica, come nelle guerre africane: gente in fuga, epidemie, malattie. Poi negli anni, una volta stabilizzata la situazione, si sperava che si risolvesse. Invece è andata complicandosi, c’è stato di 1967, la guerra dei 6 giorni, i fatti successivi… Ci siamo trovati a sostenere diverse generazioni di palestinesi. Non puoi sempre continuare a fargli il vaccino e a dargli le coperte o il sacco di riso. La gente ha ragione di chiedere scuola, sanità preventiva. Il nostro programma è diventato sempre più di sviluppo, quasi fossimo uno Stato. Gli Stati della regione non vogliono assorbire i rifugiati nei propri Paesi, anche perché i rifugiati sono uno degli elementi del contenzioso, se togli un elemento snaturi il processo di pace: si negozia su tutto, non solo sui rifugiati, ma anche su Gerusalemme e su tutto il resto».

– Quanti operatori ha oggi l’Agenzia?

«L’Unrwa ha 30 mila dipendenti, 20 mila sono insegnanti nelle scuole. Gli altri 10 mila fanno sanità e assistenza sociale. Noi lavoriamo su circa metà dei palestinesi, l’altra metà non sono rifugiati. Beh, fare educazione, sanità di base, formazione professionale, microcredito, vaccinazioni, educazione sanitaria, assistenza alla popolazione più vulnerabile… Tutto questo mi sembra molto importante. Ad esempio, a scuola facciamo un corso sui diritti umani: l’educazione è fondamentale per una via d’uscita non violenta di questo conflitto.  Non è solo un programma umanitario, è un sostegno che dà delle opportunità per il futuro. Questo è molto concreto, e mi piace molto».

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