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Laura Boldrini: ecco chi sono

16/03/2013  Nel 2010 Famiglia Cristiana consacrò Laura Boldrini come "italiana dell'anno". Ecco l'intervista in cui la presidentessa della Camera si raccontava.

Nel primo numero del 2010, Famiglia Cristiana proclamò  italiana dell'anno Laura Boldrini, allora portavoce dell'Unhcr e oggi presidente della Camera. Nell'intervista a Giulia Cerqueti, che qui ripubblichiamo, la Boldrini si raccontò così.
La casa romana di Laura Boldrini è un riflesso chiaro, perfetto della sua vita: alle pareti del salotto i quadri del fratello Andrea, pittore di professione, un affresco realizzato da sua sorella Lucia, gli acquerelli dipinti dalla zia Dafne, ultraottantenne, che da giovane lavorò come modella, girò per il mondo e a quarant’anni prese a scrivere romanzi. «Si autocandidò pure al premio Nobel», ricorda Laura.

Sui mobili i ricordi dello Yemen, del Madagascar, della Sicilia; un copricapo dal Tagikistan; e poi i tessuti vivaci, coloratissimi, da Perù, Pakistan, Afghanistan, il Paese, quest’ultimo, che più le è rimasto nel cuore, «una terra straziata, di una bellezza cinematografica». Accanto alla porta di ingresso una pila di valigie accatastate, di diversi colorie dimensioni. Nella casa di Laura Boldrini c’è la sua famiglia. E c’è il mondo.

Marchigiana, Laura è cresciuta nelle campagne vicino a Jesi (Ancona). «Io e i miei fratelli andavamo alla scuola rurale, vivevamo in un mondo chiuso, ovattato. La voglia di partire è nata lì». Sfoglia l’album dei ricordi. «Sono la più grande di cinque figli, due femmine e tre maschi, nati nell’arco di otto anni. Mia madre ci ha allevati lavorando: era insegnante di Arte, poi ha fatto l’antiquaria. Nella mia famiglia sono tutti artisti, tranne me e mio fratello Ugo: noi siamo i pragmatici di casa».

E poi il padre avvocato, riservato, austero, amante del latino e del greco,  tradizionalista, molto religioso. «Mia madre organizzava le feste; lui non glielo impediva, semplicemente non partecipava». Diversi e complementari, i suoi genitori hanno trovato un equilibrio: «Quest’anno festeggiano le nozze d’oro». Con suo padre Laura ha sempre combattuto. «I divieti per lui non si discutevano. Mia madre cercava di conciliare. Io, che ero sempre pronta a fare battaglie sui princìpi, avrei voluto che fosse più combattiva».

Dal padre Laura ha ereditato tenacia e disciplina. Il tempo e il lavoro all’Onu, poi, le hanno insegnato a mediare. Ma lo spirito battagliero è rimasto intatto. Non tutto si può negoziare: quando è in gioco la vita umana non si scende a compromessi. Una grande scuola di vita è stata l’esperienza di scout, nella parrocchia jesina di don Attilio: «Lì ho imparato la vita nel gruppo, l’amore per la natura, il rispetto dei più deboli, lo spirito del servizio».

A vent’anni il primo viaggio: in Venezuela, tra i campesinos raccoglitori di riso. Poi rotta verso New York, attraverso il Centroamerica, tra tante difficoltà, ma con la determinazione di chi vuole cavarsela da sola. «Quel viaggio mi ha fatto capire che il mondo non è solo dove si vive, ho preso coscienza della diversità».

Dopo quell’estate, per gli anni universitari, sei mesi a studiare e dare esami, gli altri sei a viaggiare. Nel 1993 è nata Anastasia, sua figlia, frutto di un matrimonio poi finito. Da due anni al fianco di Laura c’è Vittorio: «Con lui condivido interessi e impegno». Da bambina, quando Laura partiva, Anastasia preparava una valigetta di giochi e vestiti e la affidava alla madre perché la consegnasse ai bambini di quel Paese. «La maternità ha tirato fuori la parte migliore di me, mi ha resa più sensibile. Non guardo più ai bambini come a dei piccoli adulti ma come a vite da proteggere».

Nel 1998 è cominciato l’impegno per i rifugiati: i disperati del mare, in fuga da guerre e persecuzioni, senz’altra via di scampo. Ma alle tragedie del mondo non si fa il callo: «Come ci si può abituare al dolore dell’umanità?». Un pensiero, doveroso, va ai colleghi dell’Unhcr: «Il nostro è un lavoro di squadra e i riconoscimenti che mi vengono dati io li ricevo a nome di tutta la squadra, che lavora con passione e abnegazione».

Oggi l’Europa ha una grande responsabilità:«Per anni ho seguito le situazioni di emergenza in molti Paesi del mondo, dall’Irak alla Georgia. Adesso, l’emergenza è arrivata da noi, nel Mediterraneo. Come Unhcr ora siamo molto più operativi in Italia: il nostro Paese è diventato il cancello d'Europa». Con una precisazione: «I numeri parlano chiaro: i rifugiati da noi sono ancora pochi, 47 mila, contro i 600 mila della Germania, 300 mila in Gran Bretagna,150 mila in Francia. L’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, non in Europa».

Gli sbarchi via mare sono al centro dell’attenzione dei media, ma costituiscono solo una minima parte del flusso migratorio verso il nostro continente. E un rammarico che le lascia l’amaro in bocca: non essere riuscita a far capire chi è il rifugiato. «Nell’immaginario collettivo tutti gli stranieri finiscono nel calderone della clandestinità. Molta gente non immagina neppure che in Africa avere in mano un passaporto è un privilegio. Non riesce a mettersi nei panni di uomini e donne costretti ad abbandonare il loro Paese per fuggire la guerra, la morte. Chi chiede asilo spesso spera di ritornare un giorno a casa sua».

Continua: «Uno dei compiti del nostro ufficio di Roma è sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Ma è dura: negli ultimi anni la sensibilità degli italiani è molto cambiata». La politica dei respingimenti adottata dal Governo mette a repentaglio il diritto di asilo. Per quanto riguarda la percezione dello straniero, in questi anni i mezzi di comunicazione non hanno aiutato. «Quando si parla di migranti, l’Italia ritratta dai mezzi di comunicazione è soprattutto quella che ha paura, che guarda allo straniero con diffidenza. Eppure c’è un’altra Italia: quella più silenziosa e meno visibile, che è andata avanti da sola, che prosegue la tradizione di accoglienza e solidarietà radicata nello spirito del Paese».

È l’Italia degli insegnanti che realizzano progetti educativi nelle scuole, dei medici che si dedicano all’impegno umanitario, delle famiglie che danno una mano al volontariato. L’Italia del capitano Salvatore Cancemi, che ha ricevuto dall’Unhcr il Premio Per Mare (“Al coraggio di chi salva vite umane”) 2009: a novembre del 2008, con l’equipaggio del suo motopeschereccio di Mazara del Vallo e l’aiuto della Guardia costiera, trasse in salvo 300 migranti nel mare in burrasca al largo di Lampedusa. È l’Italia delle due famiglie di Palermo che hanno “adottato” Titti, 22enne eritrea, una dei 5 superstiti di un barcone di 80 persone lasciate alla deriva per tre settimane nel Canale di Sicilia, la scorsa estate.

«L’unico antidoto alla paura è la conoscenza reciproca. Solo così si abbattono le barriere. Il mondo non è più lontano, ormai è qui, in casa nostra. Non possiamo perdere quest’opportunità».

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