Quando si dice “di buona famiglia”. Spesso è un’espressione chiamata in causa quando qualche ragazzo scapestrato ne combina una grossa, per dire che da quelle parti non c’era un contesto di degrado. Oppure a proposito di uno studente che, un po’ figlio di papà, si prende il lusso di prendere gli studi a rilento perché può permetterselo.
Poi c’è il caso Jannik Sinner, che non perde occasione di ringraziare la normalità solida della sua famiglia, che tiene al riparo dalla popolarità potenzialmente invadente che ha da qualche mese ha investito quello che oggi è il primo italiano della storia (da quando la classifica Atp è calcolata al computer) a diventare numero 3 del tennis mondiale. In Australia c’era stato quel grazie a mamma e papà per avergli insegnato l’autonomia nelle decisioni e per non aver mai messo pressioni. Negli ultimi giorni, dopo la vittoria di Rotterdam, ha parlato del bisogno di andare a salutare i nonni anche solo per poche ore, e, in una chiacchierata con Vanity Fair, in cui gli si chiedeva d’amore ha risposto che «non è semplice, giro molto e durante i tornei sono molto concentrato. Ma penso che sia una bellissima cosa quando si trova un amore giusto. Come per tutti. E poi, se ci pensa, i migliori tennisti al mondo hanno tutti moglie e figli».
Un’idea di famiglia salda dunque, non avventuriera, come quella che certo ha avuto e che non vuole con la sua popolarità improvvisa terremotare. Non dice Sinner che non si possa essere campioni senza una famiglia così alle spalle e attorno, i Best, i Ronaldo, i Maradona, del resto hanno dimostrato che c’è chi vince anche con percorsi accidentati, ma di certo non è il caso del giovane altoatesino che sostiene che l’essere una brava persona e un esempio per i bambini anche fuori dal campo venga addirittura prima di quel che si fa in campo. Non per niente si è preso a modello di comportamento – per il gioco è più simile a Djokovic – Roger Federer, uno dei campioni più educati e misurati, un vero signore, che nella vita ha sposato la fidanzata storica e messo al mondo due coppie di gemelli. E che come Sinner, quando ha avuto bisogno di distrarsi per riprendersi da una sconfitta, non ha scelto destinazioni esotiche ma l’unico luogo dove poteva essere un uomo qualunque: un camper per i sentieri della sua Svizzera, con moglie e figli, esattamente come fa Sinner che va a ricaricarsi tra i suoi monti, quasi al confine con l’Austria.
Chi fa a gara per attribuire fidanzate al per di carota del tennis è avvisato: il privato di Sinner è privato e tale desidera che rimanga.
È troppo giovane, Sinner, per sapere che c’è stato un tempo, gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, in cui ai campioni del calcio si suggeriva di prender moglie da giovani per mettere presto la testa a partito, erano le società e gli allenatori a consigliarlo: e corre voce che uno dei sostenitori della teoria fosse Gianpiero Boniperti. Forse c’era del vero nel fatto che si sarebbe stati meno portati a fuggire dai lunghi ritiri, ma allora come sempre contava che si sapesse ciò che si faceva.
Nel tennis di oggi, un frullatore che porta molti mesi all’anno i tennisti in giro per il mondo, una famiglia riuscita al seguito è spesso il modo di trovare una quotidianità e fugare la solitudine. Ma Sinner, abituato fin da preadolescente a cavarsela da solo, non avrà motivo di mettersi fretta. Che sia un uomo quadrato ed equilibrato di suo pare ormai assodato.
La storia dello sport insegna, Open l’autobiografia di Agassi per esempio, che non aiutano l’equilibrio genitori opprimenti e troppo attaccati al risultato. Se poi hanno il difetto di fare gli allenatori in campo e fuori la salita si fa ancora più impervia (ha fatto notizia la frattura di Gianmarco Tamberi con il padre allenatore, ma il campione gli ha dedicato il titolo mondiale vinto senza di lui e ha glissato sui rapporti personali con un elegante: «Non sono cose di cui si parla in Tv»).
Di certo non aiuta vivere appesi sempre e soltanto a un risultato sportivo: basta una partita persa per mandare in crisi l’equilibrio di una persona. Costruirsi una famiglia riuscita favorisce una stabilità emotiva che fa bene anche al campo, dove viene in gioco anche l’equilibrio di una persona intera non solo del campione.
Di sicuro c’è un momento nella carriera, che lo sport come sistema spesso non si cura di prevenire, che rappresenta anche per la famiglia un punto delicato: è il tempo in cui il campione cessa di essere tale e ci sono equilibri da ritrovare. Lo racconta tra le altre cose La leggenda del pallavolista volante, spettacolo messo insieme molti anni fa da Andrea Zorzi, schiacciatore della generazione dei fenomeni, e da sua moglie Giulia Staccioli, ex ginnasta fondatrice della compagnia di danza Kataklò: la pièce teatrale ha superato le 250 repliche ed è tuttora in giro per i teatri. Quando nacque lo spettacolo, Zorzi raccontò a Famiglia Cristiana, che l’impatto con l’atterraggio nella vita vera dopo l’agonismo è duro per tutti: «Per molti di noi la fine della carriera è coincisa con la crisi delle relazioni personali: tu non sai più chi sei, tua moglie ha sposato un mito e si ritrova accanto un uomo nervoso, spaesato che non si riconosce».
Se il terreno su cui si è costruito è friabile il gioco si fa durissimo, se sotto c’è base solida ci si riprende, come ha fatto la famiglia Zorzi. Guardare per credere in casa di Giovanni Trapattoni, che allenava alla Juve ai tempi di Boniperti, e che nel 2018 è stato “paparazzato” alle Maldive per un bacio rubato alla moglie Paola, sposata nel 1964.