«Diciamo la verità, il santo popolo di Dio stanca, stanca!». È la confidenza, benevola e un po’ complice, che papa Francesco fece qualche tempo fa ai seminaristi di Molfetta. La sottoscriverebbe anche don Beniamino Bucquoy, protagonista del romanzo Il signor parroco ha dato di matto (San Paolo, 2017), campione di vendite in Francia e giunto pure in Italia alla quinta edizione. Il suo autore non è un sacerdote, anche se di preti se ne intende: caporedattore del settimanale di attualità religiosa La Vie, Jean Mercier si è confrontato per anni con numerosi vescovi e presbiteri, che oggi si riconoscono nella figura di questo simpatico parroco sull’orlo di una crisi di nervi. «Ho scritto saggi su temi decisamente seri, come il celibato dei sacerdoti, ma questa storia è nata per divertimento personale. Ho cominciato così, solo per ridere un po’. Poi l’ho fatta leggere ad alcuni amici ed è piaciuta. Così è nata l’idea del romanzo», spiega.
Come ha fatto a raccontare così bene la vita dei nostri preti?
«È incredibile, eppure io sono sposato! Certo, dietro ci sono tanti colloqui con sacerdoti, ma anche la relazione molto forte con il mio padre spirituale, dal quale ho imparato tanto. In questo mio primo romanzo parlo dei conflitti nella parrocchia – tema che piace molto – però racconto soprattutto di una crisi d’identità spirituale, di una lotta interiore, e del discernimento. Mi sono interrogato sull’identità dei cristiani battezzati e soprattutto dei preti, sulle cui spalle c’è una pressione fortissima».
Che idea si è fatto?
«Credo che il nodo più importante della vocazione di un sacerdote sia la sua vita spirituale, perché è questo ciò che noi – come fedeli battezzati – chiediamo loro. Un prete è prima di tutto un padre spirituale. Sono convinto che, se un prete ha figli spirituali, non possa essere triste, o amaro. E credo ci siano molti preti troppo sbilanciati sul fare e sull’azione perché non hanno questa paternità spirituale. Per me la chiave per essere preti felici e buoni sacerdoti, lo ripeto, è questa: essere un buon padre spirituale».
Parlando ai seminaristi di Molfetta, papa Francesco ha parlato del parroco come del «padre della comunità»...
«Essere padre di una comunità è il carattere proprio del parroco, ma ci sono diversi tipi di preti, pensiamo ai religiosi. Il parroco mi pare essere un modello che – almeno in Francia – si è esaurito. Il vescovo di una diocesi piuttosto grande mi diceva che ha solo una decina di sacerdoti in buona salute: il sistema territoriale delle parrocchie sta crollando, non c’è più un numero sufficiente di preti per farlo funzionare».
Il suo personaggio è stato paragonato spesso al parroco per eccellenza, il don Camillo di Guareschi. Eppure è diversissimo: ama lo studio, ha ambizioni universitarie, e non disdegna la fuga strategica...
«Sono d’accordo, credo che don Beniamino sia un tipo di prete completamente diverso da don Camillo, che è un po’ questa figura dell’organizzatore, del grande animatore parrocchiale. Credo invece che i giovani preti siano molto più attratti dall’accompagnamento spirituale, dal presenziare alla conversione delle anime».
Una dimensione più monastica, che sociale. In effetti don Beniamino non soffre di depressione, ma di dispersione. E supera la crisi interiore grazie a una cella...
«Oggi la gente è smarrita, ha bisogno di figure con cui affrontare i propri problemi spirituali. Può farlo prima di tutto con la confessione, perché è lì che si vive la conversione permanente, quella che la tradizione benedettina chiama conversio mori. Abbiamo bisogno di testimoni, di un padre o madre spirituale, e di questo momento di verità con Dio che è il sacramento del perdono. Vedo che in Francia i quindicenni vi si accostano più degli anziani. E penso che in futuro cambierà tutto nel nostro Paese, e allora la figura del prete dovrà essere più vicina a quello della tradizione ortodossa: accompagnare la vita spirituale dei fedeli, piuttosto che essere la figura patriarcale che guida la comunità».
Don Beniamino ha 50 anni, Jean Mercier 53. Ha attraversato anche lei una crisi interiore simile?
«C’è molto di me in lui... non è facile per questo sacerdote trovare la propria posizione, e non lo è stato nemmeno per me. Nella prima stesura del racconto don Beniamino era un prete molto più giovane, più tradizionalista, e i conflitti in parrocchia erano molto legati alla liturgia. Poi sono stato gravemente malato e quando, in seguito, ho ripreso in mano il testo, ho cambiato alcune cose. Ora don Beniamino affronta la crisi di mezza età... è diventato una figura meno ideologica, e più vera».
In questo romanzo si sottolinea il valore della riconoscenza... è qualcosa a cui ambiscono tutti, magari senza saperlo. E la loro guarigione comincia quando vengono ri-conosciuti...
«È una dimensione fondamentale, nella nostra vita personale come pure nel lavoro. Credo che molti vescovi, pur conoscendo il valore dei propri preti, non sappiano dare voce alla dimensione affettiva della riconoscenza... magari per non creare aspettative, perché vogliono che i preti capaci non chiedano promozioni e restino dove sono. Così pure il parroco può avere difficoltà a esprimere la riconoscenza ai laici della sua parrocchia. È una questione molto importante: la Chiesa è una grande storia di amicizia, ed è questa amicizia che dobbiamo darci mutualmente».
Nel romanzo appaiono due modelli di Chiesa. Prima compare una Chiesa “centro”, che attira a sé le persone, ma alla fine c’è pure una Chiesa “ospedale da campo”. Un po’ Benedetto XVI, un po’ papa Francesco...
«È un’analisi molto bella. Credo che la Chiesa debba avere entrambe le dimensioni: attrarre a sé il bisogno spirituale, come pure andare per le strade del mondo senza paura di sporcarsi. In Francia la Chiesa è abbastanza forte in alcuni luoghi – soprattutto nella borghesia –, però è difficile uscire da questa comfort zone dove stiamo tutti insieme e abbiamo gli stessi codici di comportamento. E invece dobbiamo uscire dalle mura del conforto».