«Oggi ho incontrato
un’anima, piccola
e imprigionata,
ma di cui ho intravisto
i bagliori splendere attraverso
le sbarre della sua prigione. Prima
di salire con lei sull’albero pensavo
fosse una selvaggia, un animaletto,
ma su quell’albero lei mi stava aspettando.
Come fare? Vive nell’oscurità
e nel silenzio assoluto… Come fare
per farla parlare e ascoltarla?».
Questa è la storia di un film,
Marie Heurtin. Dal buio alla luce, con
Isabelle Carré e Ariana Rivoire, al cinema
dal 3 marzo. Ma è anche la storia
di un regista e sceneggiatore fuori
dagli schemi, il francese Jean-Pierre
Améris, che ha una passione che dà
senso alla sua attività: vuole raccontare
la diversità.
«Al centro dei miei film ci sono
quelle persone che sono, in qualche
modo, messe al bando o stigmatizzate
dalla società. Giovani soli con dei
sogni che s’inventano una vita immaginaria,
gruppi di anziani in un
ospizio, profughi e migranti, disabili,
ma anche uomini e donne dalla sensibilità
così esacerbata da impedire
ogni relazione sociale, come nel film
commedia Emotivi anonimi», spiega.
«Mi piace raccontare e lmare le vite
di persone che possono turbare e destabilizzare,
sperando che il pubblico,
dopo aver imparato a conoscerli,
li ami anche attraverso il film e che,
dopo la visione, cambi lo sguardo e
non provi più timore».
La vicenda di Marie Heurtin è
basata su una storia vera, di fede profonda,
di amore per la vita e per il
prossimo. A fine Ottocento una ragazzina
quattordicenne, Marie, non
vedente e non udente dalla nascita,
viene condotta dall’amato e amorevole
padre nell’istituto religioso di
Larnay, vicino a Poitiers, tenuto dalle
Filles de la Sagesse, che seguivano
l’educazione di bambine sordomute.
Marie pare un caso senza speranza,
senza alcuna connessione con il mondo
esterno. Sarà una religiosa, suor
Marguerite, a prendersi cura di lei,
con caparbietà e amore.
Come è venuto a conoscenza
della storia di Marie Heurtin?
«Mi ha sempre appassionato la
reale vicenda di Helen Keller, la ragazzina
americana sorda e non vedente:
l’ho conosciuta quando ero
adolescente attraverso il bellissimo film di Arthur Penn, Anna dei miracoli,
con Anne Bancroft. Da una decina
di anni faccio delle ricerche sulle
vite sconosciute di disabili visivi e
uditivi: ho così scoperto una storia
del tutto dimenticata, quella di Marie
Heurtin appunto, e di suor Sainte-
Marguerite (che sviluppò a Larnay
un metodo pedagogico per aiutare i
disabili visivi e uditivi, ndr). Ho voluto
condividerla con il pubblico perché
trovo che sia una storia senza
tempo che ci riguarda tutti in senso
assoluto, perché parla sì delle differenze
ma anche di quell’amore che
ci fa abbandonare il nostro egoismo
per prenderci cura degli altri».
I suoi fiilm affrontano temi
drammatici ma ciò che prevale è la
speranza: in Marie Heurtin la fede
illumina, è gioiosa…
«In tutti i miei film racconto la
storia di personaggi che sono “rinchiusi”,
prigionieri di se stessi o di
disabilità, e che cercano di aprirsi
agli altri, di comunicare. Ed è ciò che
mi piace di più filmare, cioè come
gli esseri umani riescono a relazionarsi
gli uni con gli altri. Anche se
i miei argomenti possono sembrare
difficili, credo in realtà di fare un
cinema molto ottimista sulla natura
umana, sulla capacità di tutti di essere
aperti e di legare con gli altri.
Senza questo proposito, penso che
si viva solo a metà».
Nella vicenda di Marie Heurtin
parla di miracolo: possono la comprensione
e l’amore fare miracoli?
«Ciò che trovo sconvolgente di
questa storia è che racconta un vero
e proprio miracolo. Un miracolo
nato dalla volontà, dalla fiducia
e dal coraggio delle religiose. Non è
un miracolo che cade dal cielo. È per
questo che non si mostra mai suor
Marguerite pregare. Per cercare di
far comprendere la grande importanza
del nostro impegno: Marguerite
riesce a ottenere un risultato da
tutti ritenuto impossibile imparare
a comunicare con una sordo-cieca
grazie alla sua energia, alla sua
caparbietà e intelligenza. Per me il
messaggio di Cristo è prima di ogni
cosa concreto: compiere gli atti qui
e ora. Fare la sua volontà».
Il legame tra la suora e la piccola
Marie è quasi materno. Non solo
Marguerite aiuta Marie, ma anche
viceversa. A un certo punto Marguerite
scrive sul suo diario: «Marie
mi ha dato così tanto, un mondo
che ignoravo completamente,
un mondo che si tocca, un mondo
dove tutto ciò che è vivo pulsa sotto
le dita». Cosa ci può raccontare?
«Studiando la reale vicenda ho
scoperto che si è trattato prima di
tutto di una storia d’affetto profondo,
una storia di fusione, l’incontro
di due anime, come ha detto la suora.
Si tratta di trasmissione e scambio:
la suora dona a Marie un linguaggio
che le permette di essere libera
e aperta al mondo. Ma è vero anche
il contrario: Marguerite, tramite Marie,
vive una forma di amore materno
che non avrebbe mai potuto conoscere
e la ragazza la pone in relazione
intima con un altro mondo, quello
della natura, dove tutto è fisico, tattile,
sensuale. Dalla mia esperienza
personale so che c’è ancora molto da
imparare dalle persone con disabilità.
È davvero uno scambio».
Nel film si sente molto la forza
della fede: lei è credente e ha dichiarato
che qui, per la prima volta,
ne ha potuto raccontare la gioia e
la luminosità.
«La fede che mi appartiene è la
fede che può muovere le montagne,
che può andare contro l’ordine stabilito,
che ci dice cosa fare o non fare. E
questo è ciò che mostra suor Marguerite:
non è una fede teorica ma è una
fede “in azione”, che può disturbare.
La fede è qualcosa di sovversivo, di
ribelle, questo è quanto amo degli insegnamenti
di papa Francesco».
Nel film si parla tanto dell’uomo,
tanto di Dio e della Provvidenza:
cosa ci può dire in proposito?
«Ho sempre in mente una frase
del filosofo Nietzsche: “Se pure
il dolore è profondo, la gioia è ancor
più profonda del dolore”. È la
gioia incrollabile di suor Marguerite
che le permette di spostare le montagne,
di risollevarsi sempre dopo
le scontte. Ho cercato di trasmettere
al pubblico la gioia che si prova
nel dedicarsi agli altri, alle persone
più bisognose. Credo che questo sia
un bell’esempio per il nostro tempo
individualista e materialista. Il senso
per me è ciò che si è “realizzato”
nella vita. La storia di Marie e suor
Marguerite è tutt’altro che triste, è
piena di speranza. La religiosa non
perde tempo a piangere per il fatto
che Marie è sorda e cieca. Anche nei
momenti di sconforto dice a se stessa:
“La vita per ora è un calvario. Quale
cammino devo percorrere?”. E non
demorde mai. Con le armi della fiducia e della fede, la suora riesce a
comunicare e, un passo alla volta, a
dare a Marie la possibilità di vivere
con gli altri, di esprimersi. Noi assistiamo
allo sbocciare di un’esistenza
piena. “Vedo uno spettacolo meraviglioso,
un’esplosione di linguaggio.
La dicoltà stava nell’imparare la
prima parola”, afferma Marguerite.
Allo stesso modo, la morte non è triste
ma è comunicata a Marie come
parte della vita. La suora muore con
l’abbraccio di Marie, la “figlia della
sua anima”, come la chiama, felice
di aver avuto il tempo di completare
il suo lavoro. Questo è esattamente
quello che penso: la fede non è nulla
senza le azioni».
Qual è il suo prossimo
progetto?
«La storia di un giovane soldato
che torna dalla guerra sfigurato e
dovrà imparare a vivere con gli altri.
Un’altra storia di “differenza”!».