«Se una di noi si dovesse ridurre in uno stato vegetativo, l’altra le staccherà la spina». La solenne e reciproca promessa è delle gemelle Alice ed Ellen Kessler, resa pubblica sull’ultimo numero del settimanale “Chi”. Molti tra quelli che hanno ormai qualche anno se le ricordano come i “sex symbol” degli anni ’50 e ’60, due corpi perfetti che si muovono all’unisono, sbarazzine quanto basta ma anche capaci di interpretazioni impegnative (Bertolt Brecht su tutti), adattamento teutonico (e riuscito) alla “dolce vita”, il nuovo life-style che sprizzava ottimismo da tutti i pori di una generazione intera uscita prostrata dalla guerra.
Oggi le due artiste unite come non mai nonostante la non verdissima età sono ancora in piena forma e stanno girando in tournée con il loro ultimo spettacolo. Sarà forse anche per farsi pubblicità che si sono lasciate andare a una battuta, che ha generato scontate polemiche. Tanto complesso, eppure così semplice, il “fine-vita”, un termine di recente conio impensabile fino a pochi anni fa, è ormai diventato uno dei temi-civetta di quegli scontri di civiltà tipici del nostro tempo, questa volta tra chi si ritiene “difensore della vita” e chi pensa di essere “difensore della dignità dell’uomo”.
Come se le due cose fossero in contraddizione. Chi non si sente personalmente coinvolto? Cosa fare di un uomo o di una donna che si trova in uno stato comunemente definito “vegetativo”, cioè senza apparenti risposte agli stimoli esterni, chiuso in un mutismo, che a molti sembra dire qualcosa e ad altri (molti anche loro) non dice assolutamente nulla, se non che è ora appunto di “staccare la spina”? Staccarla veramente? O invece accudirlo, accudirla, cercando di mai oltrepassare i confini dell’accanimento terapeutico, sui cui limiti, comunque, si dibatte a colpi di fioretto - con distinguo medici ed etici - o, più spesso (tipo in Parlamento), a colpi di scimitarra?
Mentre la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento “dorme” al Senato, seppellita dalle urgenze della crisi economica, tra una settimana scade il terzo anniversario della morte di Eluana Englaro (9 febbraio 2009), la donna vissuta per 17 anni in stato vegetativo e poi morta a seguito della sospensione dei trattamenti di alimentazione e idratazione autorizzata dai giudici su richiesta del padre Peppino.
Quale occasione migliore allora per rinfocolare le polemiche sollecitando dalle due artiste un’affermazione del genere? Avrebbero davvero il coraggio di “staccare la spina”? E quali sarebbero le condizioni minime per procedere? E l’altra cosa farebbe senza l’altra “metà”? Suicidio assistito? Domande che non avranno risposte, semplicemente perché a leggerle paiono affermazioni buttate un po’ là, come si fa al bar o tra amici davanti al caminetto, quando si è in vena di cose semiserie.
Ci viene solo un dubbio: sono consapevoli le due gemelle che una cultura è creata anche da quanto dichiara o non dichiara un personaggio pubblico, dotato di visibilità e quindi quasi automaticamente di credibilità?
L’alternativa, in fondo, è tra un pensarsi “soli” e “gettati nel mondo” - cosicché diventi un disturbo quando non servi più nemmeno a scambiare due parole - e un sentirsi “insieme”, “con” e “per” gli altri. A prescindere da quello che “fai”. Semplicemente perché “sei” e “sei stato”. Ed “essere” è un bel mistero, nonostante tutto. Tutto (appunto) da vivere.