A testa alta
A Sant’Onofrio, nella domenica in Albis, la pietà popolare si è riappropriata del suo rito. Era stato rinviato la domenica di Pasqua dopo l’intimidazione subita dal priore della confraternita del Rosario: due colpi di arma da fuoco contro il cancello della sua abitazione, per dire che la disposizione che impediva agli uomini collegati alle cosche di portare a spalla le statue non era piaciuta ai clan. Ma la Chiesa non ha ceduto alla prepotenza. Il vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, Luigi Renzo, aveva firmato un anno fa un direttorio nel quale si legge tra l’altro che per l’organizzazione della festa non possono essere coinvolte persone che «non frequentano abitualmente la parrocchia, che abbiano avuto condanne penali, che abbiano in corso procedimenti penali pendenti».
Un comma, questo, che non lascia spazio alle infiltrazioni della ‘ndrangheta in tutto ciò che è sacro. Su questa linea, in realtà, si sta muovendo da alcuni anni tutta la Conferenza episcopale. Nel 2007 i vescovi avevano emanato una nota che già nel titolo, con il suo richiamo evangelico, suonava come un monito per le cosche: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”: «dobbiamo dimostrarci capaci di costruire modelli culturali alternativi» avevano scritto i presuli.
Proprio quell’anno, tra l’altro, era esplosa un’altra bomba mediatica che aveva fatto conoscere la ndrangheta al mondo: a Duisburg, in Germania, sei persone erano state uccise nel giorno di ferragosto davanti al ristorante italiano De Bruno, nell’ambito della faida che tormentava il paese aspromontano di San Luca. Pochi giorni dopo la strage, al santuario di Polsi, si celebrò un altro rito caro alla pietà popolare calabrese, con la statua della Madonna che raffigurava la sua vittoria sulla Sibilla. Anche allora, come domenica scorsa a Sant’Onofrio, il corteo si svolse sotto il controllo delle forze dell’ordine e lo sguardo dei giornalisti accorsi da tutto il mondo. Il vescovo di Locri, in quell’epoca, era Giancarlo Bregantini.
Durante l’omelia disse: «Per questa festa si aspettavano di trovare cose tragiche e invece la gente ha mostrato il volto più bello: ha pregato». Proprio come è successo nella domenica in Albis del 2010 sul versante opposto della regione, nella provincia di Vibo Valentia: a Sant’Onofrio la gente ha pregato. E si è commossa. Perché l’Affruntata, hanno detto, è del popolo e in Calabria la pietà popolare, guidata dalla gerarchia della Chiesa, non si vuole far schiacciare dalla ’ndrangheta.
C’è un teologo che spiega con chiarezza cosa significhi l’Affruntata per i calabresi. Si chiama Ignazio Schinella, è un monsignore, ex rettore del seminario regionale San pio X di Catanzaro e docente di Teologia morale alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale. «L’Affruntata – dice - è l’annuncio della morte e risurrezione di Cristo che si trasferisce dalla liturgia al sagrato e attraversa il paese per farlo rifiorire e convertirlo da tutte le iniquità». E’ il «vangelo apocrifo» delle apparizioni del Gesù a Maria, raffigurato con le statue di San Giovanni, del Risorto e dell’Addolorata e scritto nel linguaggio simbolico della pietà popolare. E popolare, spiega ancora Schinella, «va inteso nel suo significato ecclesiologico di popolo di Dio guidato dalla gerarchia e non in senso gramsciano delle fasce povere, non dotte, subalterne della società».