L'intervento dei soldati kenyani dopo l'assalto degli shabab al campus universitario di Garissa. In copertina: l'intervento dei militari somali nel corso dell'attacco degli shabab all'hotel Al mukarama di Mogadiscio (Le foto sono Reuters).
Campus universitario di Garissa, in Kenya, 2 aprile 2015: 147 morti e un’ottantina di feriti. Regione di Mandera, Nord del Kenya, 22 novembre 2014: assalto a un autobus, 28 persone perdono la vita. In entrambi i casi vengono rilasciati i musulmani, uccisi i cristiani e tutti gli altri. Nairobi, 23 settembre 2013: una decina di terroristi assaltano il centro commerciale di Westgate: 67 vittime. Kampala, capitale dell’Uganda: il 12 luglio 2010 esplodono due bombe, i morti sono una settantina.
È la cronologia di sangue degli “shabab” negli attentati più gravi messi a segno fuori confine. In Somalia, autobomba, kamikaze e assalti sono all’ordine del giorno. Il più recente è del 27 marzo scorso: viene attaccato l’hotel Al Mukarama di Mogadiscio, punto di riferimento per gli incontri di politici e uomini d’affari: esplode un’autobomba all’ingresso principale, una decina di terroristi approfitta del caos per entrare dal retro e sparare all’impazzata sui presenti.
La battaglia tra forze speciali somale e shabab durerà fino al mattino dopo: 18 vittime, una quindicina di feriti. Vi perde la vita anche Yusuf Mohamed Ismail Bari-Bari, l’ambasciatore somalo presso l’Onu di Ginevra e la Svizzera. O meglio, l’ambasciatore “italo-somalo” come tanti lo chiamavano, nato a Roma, vissuto a Bologna per 30 anni (e amico di Famiglia Cristiana: aveva accompagnato diverse nostre missioni nel Paese del Corno d’Africa).
Probabilmente era uno dei bersagli principali dell’attacco, non solo perché rappresentante del governo, ma anche per le sue note posizioni a favore di un islam moderato e di una concezione laica dello Stato: Yusuf Bari-Bari aveva combattuto da sempre con le armi della politica l’estremismo islamico, fin dai primi anni ’90, quando i primi nuclei armati fondamentalisti avevano fatto la loro comparsa nel Nord-est del Paese africano. Allora furono sconfitti militarmente e si ritirarono nelle montagne, verso il confine etiopico.
Uno dei feriti dell'assalto all'hotel Al Mukarama di Mogadiscio del 27 marzo scorso (foto Reuters).
Un estremismo che la Somalia non aveva mai conosciuto
Era però l’inizio di una storia che la Somalia, da sempre caratterizzata da un islam moderato e tollerante, non aveva mai conosciuto. Già nel 1998 – quando Al Qaeda faceva scoppiare le bombe in Tanzania e in Kenya e Osama bin Laden soggiornava nel Paese africano – gli osservatori segnalavano che attraverso le scuole coraniche si diffondeva il “verbo” estremista e antioccidentale.
Il fenomeno poi esplode all’inizio degli anni 2000, con le cosiddette “Corti islamiche”, una nuova fazione politico militare che in pochi mesi soppianta i signori della guerra somala, protagonisti fino a quel momento della guerra civile scoppiata nel 1991.
Arrivano a conquistare Mogadiscio, seppure per breve tempo: l’azione congiunta del governo del presidente Abdullahi Yusuf e dell’esercito etiope ricacciano gli estremisti. Ma questi si riorganizzano, tornando sulla scena poco dopo col nome di Al Shabab: più forti, più finanziati, più sanguinari dei predecessori.
Riescono anche a conquistare diverse importanti città somale, compresa la capitale, ma ancora una volta vengono sconfitti, nel 2011, questa volta con l’azione a tenaglia dei militari somali, kenyani e dei caschi blu dell’Onu. Gli shabab tornano invisibili, e comincia il tempo delle bombe, degli attentati suicidi, degli attacchi di commando.
Poco importa, a loro, se intanto i profughi sono più di due milioni, se 360 mila “assediano” le periferie di Mogadiscio, se milioni di somali sono emigrati in mezzo mondo. Yusuf Bari-Bari diceva che per riportare la pace nel Paese era necessario far tornare in patria i somali della diaspora, educati e cresciuti in culture tolleranti e democratiche. Probabilmente aveva ragione. Ma non ha fatto in tempo a realizzare il suo sogno.