Un nome, non quello vero, e un cognome che è un’iniziale puntata. Che la storia che Marianna F. ha affidato a Eugenio Arcidiacono, giornalista di Famiglia Cristiana in Testimone di ingiustizia (San Paolo), sia una storia complicata e dura lo si capisce da qui: dal fatto che chi la racconta ha un nome che non si può dire, dal fatto che viene da un paese che non si può nominare. Questione di sicurezza. Marianna è una testimone di giustizia, di ingiustizia dice nel titolo del libro: molti anni fa – nel 1992 quando la ‘ndrangheta era nel cono d’ombra lasciato dal riflettore dell’attenzione pubblica puntato sulla Sicilia delle stragi - , insieme ai suoi genitori, contro la ‘ndrangheta – a causa della quale per motivi diversi ha perso due fratelli - ha scelto lo Stato, non ha lasciato vincere la legge non scritta dell’omertà e ha consegnato allo Stato la sua tessera nel mosaico della verità.
Testo e titolo, che insieme ci restituiscono una storia potente e dolorosa, ci interrogano e interrogano soprattutto lo Stato inteso come istituzioni, nelle persone che lo rappresentano: magistrati, legislatori, forze dell’ordine e tutte le componenti che coordinano i programmi di protezione. La partita è decisiva perché lo Stato ha il dovere di rendere non solo giusta ma anche conveniente la scelta, costosa, di stare dalla sua parte contro il crimine. Diversamente si finisce per incentivare, indirettamente e involontariamente, la scelta opposta.
Si sono fatti passi avanti, prima nel 2001 poi nel 2018, la legge si è evoluta in una direzione di maggiore tutela dei testimoni, che finalmente anche sulla carta sono distinti dai collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti” che hanno commesso reati e, facendo parte delle organizzazioni criminali, fanno un patto con lo Stato: dire cose che sanno in cambio di un trattamento sanzionatorio più favorevole. I testimoni sono diversi: sono persone informate sui fatti, ma senza colpe: semplicemente hanno visto un reato o ne sono stati vittime, talvolta avendo la sventura di avere il nemico più pericoloso dentro la propria famiglia anagrafica. Processualmente nel sistema italiano i testimoni hanno una posizione più scomoda di quella degli imputati: i primi sono tenuti alla verità, i secondi possono mentire perché un principio di civiltà giuridica fa sì che nessuno possa essere costretto ad accusare sé stesso. Prima che il processo parta, spesso i testimoni sono coloro che consegnano alla giustizia tessere del mosaico che può portare alla ricostruzione della verità: più tessere si consegnano, più è probabile che la verità emerga, più omertà c’è più facilmente la giustizia arriva ad alzare bandiera bianca.
Ma sarebbe ingenuo o ideologico non ammettere che chi ha fatto fino in fondo il proprio dovere di testimone in certi contesti si è consegnato a una vita complicata, soprattutto se lo ha fatto – come Marianna - in tempi lontani, quando le norme che tutelano i testimoni, cercando di tutelarne non solo l’incolumità ma anche la “normalità” e la quotidianità, erano ancora tutte da disegnare e si navigava un po’ a vista.
Marianna racconta tutte queste complicazioni, con la vividezza che la sua cultura le consente: ha studiato Marianna, ha cercato di costruirsi una vita autonoma lontana da quel paese senza nome, ma il passato l’ha inseguita e la costruzione del suo percorso è rimasta congelata in un limbo, causato anche dal fatto che le leggi più recenti, che oggi tutelano i testimoni di giustizia, per una serie di complicate ragioni non riescono a estendere per intero il loro ombrello protettivo a chi ha detto ciò che sapeva prima che entrassero in vigore. Marianna è una donna forte, dice che non tornerebbe indietro, che sceglierebbe ancora lo Stato se la vita riavvolgesse il nastro e la riportasse allo stesso bivio. Ma, giustamente, allo Stato oggi chiede risposte, perché per quella scelta ha sacrificato troppo, e le norme che tutelano chi è venuto dopo di lei non possono bastarle. La paura è ancora lì e il limbo le tiene la vita in sospeso. Per questo sarebbe importante che chi rappresenta lo Stato, in tutte le sue forme, leggesse questo libro, perché deve servire a migliorare le cose che ancora non funzionano e sarebbe grave se invece servisse a concludere che scegliere lo Stato non conviene. Ma non è retorica dire che lo Stato siamo anche noi, tutti noi, e c’è un passaggio del libro che lo prova e che ci deve fare riflettere: quando Marianna e la sua famiglia tornano al paese senza nome, in Calabria, il negoziante di alimentari si offre di portare loro la spesa a casa, perché, spiega, se il resto del paese scopre che chi ha testimoniato fa la spesa lì nessun altro ci andrà più.
C’è una canzone di De André che ha un titolo strano: “Le acciughe fanno il pallone”. Allude al fatto che in natura piccoli pesci come le acciughe tendono a muoversi in banco per fare massa critica e difendersi così dai predatori: se ogni acciuga andasse per mare da sé o a piccoli gruppetti resterebbe isolata e finirebbe sempre mangiata. Se le acciughe non sono ancora estinte è merito dell’istinto di fare il pallone, di mettersi insieme per difendersi dal predatore unite. È ciò che fa Arcidiacono con questo libro: accendo un riflettore perché Marianna e gli altri come lei non restino soli nel mare aperto della burocrazia. Tocca allo Stato nelle sue istituzioni proteggere le acciughe come Marianna, migliorando la vita e la sicurezza di chi si mette dalla sua da parte e ha il dovere di farlo anche sanando con urgenza quello che ancora non funziona per chi ha fatto la scelta della giustizia tanto tempo fa e vigilando su quelli venuti dopo, ma è vero che anche tra gli uomini più grande è il pallone, più numerose sono le acciughe che si uniscono dalla parte sana, più si sottrae forza al nemico. È la logica del movimento Ammazzateci tutti nato nel 2005 in Calabria non per caso, anche dalla presa di coscienza del fatto che il predatore non risparmia le acciughe che, come nel libro Francesco, si mettono dalla sua parte. Alla fine le mangia.