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«I catechisti in-segnano, cioè lasciano un segno interiore: quando educhiamo alla fede, non diamo un ammaestramento, ma poniamo nel cuore la parola di vita, affinché porti frutti di vita buona». Papa Leone parla agli oltre 35 mila che, in piazza san Pietro, celebrano il loro Giubileo. Prima dell'omelia consegna il mandato a 39 di loro. Ciascuno dei candidati al ministero di catechista risponde il suo "Eccomi" alla chiamata per nome e, dopo l'omelia, riceve un crocifisso, segno della sua speciale vocazione. Leone spiega la parabola del ricco «che non ha nome perché ha perso se stesso» e di Lazzaro, simbolo di tutti i poveri di cui Dio non si dimentica, ed esorta chi deve trasmettere la fede a essere prima di tutto testimone.
«Voi catechisti», spiega, «siete quei discepoli di Gesù, che ne diventano testimoni: il nome del ministero che svolgete viene dal verbo greco katēchein, che significa istruire a viva voce, far risuonare. Ciò vuol dire che il catechista è persona di parola, una parola che pronuncia con la propria vita. Perciò i primi catechisti sono i nostri genitori, coloro che ci hanno parlato per primi e ci hanno insegnato a parlare. Come abbiamo imparato la nostra lingua madre, così l’annuncio della fede non può essere delegato ad altri, ma accade lì dove viviamo. Anzitutto nelle nostre case, attorno alla tavola: quando c’è una voce, un gesto, un volto che porta a Cristo, la famiglia sperimenta la bellezza del Vangelo».
E ancora sottolinea che «tutti siamo stati educati a credere mediante la testimonianza di chi ha creduto prima di noi. Da bambini e da ragazzi, da giovani, poi da adulti e anche da anziani, i catechisti ci accompagnano nella fede condividendo un cammino costante, come avete fatto voi oggi, nel pellegrinaggio giubilare». Una dinamica che coinvolge tutta la Chiesa. «In tale comunione, il Catechismo è lo “strumento di viaggio” che ci ripara dall’individualismo e dalle discordie, perché attesta la fede di tutta la Chiesa cattolica. Ogni fedele collabora alla sua opera pastorale ascoltando le domande, condividendo le prove, servendo il desiderio di giustizia e di verità che abita la coscienza umana».
Il Pontefice sottolinea anche che il brano evangelico per la messa del Giubileo dei catechisti, «per una singolare coincidenza», è lo stesso dell’analogo Giubileo del 2016, quello della Misericordia. E cita papa Francesco che «per quella circostanza evidenziò che Dio redime il mondo da ogni male, dando la sua vita per la nostra salvezza. La sua azione è inizio della nostra missione, perché ci invita a donare noi stessi per il bene di tutti. Diceva il Papa ai catechisti: “Questo centro attorno al quale tutto ruota, questo cuore pulsante che dà vita a tutto è l’annuncio pasquale, il primo annuncio: il Signore Gesù è risorto, il Signore Gesù ti ama, per te ha dato la sua vita; risorto e vivo, ti sta accanto e ti attende ogni giorno”». Parole che anche oggi «ci fanno riflettere sul dialogo tra l’uomo ricco e Abramo, che abbiamo ascoltato nel Vangelo: si tratta di una supplica che il ricco rivolge per salvare i suoi fratelli e che diventa per noi una sfida. Parlando con Abramo, infatti, egli esclama: “Se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Così risponde Abramo: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai mort”. Ebbene, uno è risorto dai morti: Gesù Cristo. Le parole della Scrittura, allora, non ci vogliono deludere o scoraggiare, ma destano la nostra coscienza. Ascoltare Mosè e i Profeti significa fare memoria dei comandamenti e delle promesse di Dio, la cui provvidenza non abbandona mai nessuno. Il Vangelo ci annuncia che la vita di tutti può cambiare, perché Cristo è risorto dai morti. Questo evento è la verità che ci salva: perciò va conosciuta e annunciata, ma non basta. Va amata: è quest’amore che ci porta a comprendere il Vangelo, perché ci trasforma aprendo il cuore alla parola di Dio e al volto del prossimo».
Dura la condanna di papa Leone guardando anche all’oggi: «Il racconto che Cristo ci consegna è, purtroppo, molto attuale. Alle porte dell’opulenza sta oggi la miseria di interi popoli, piagati dalla guerra e dallo sfruttamento. Attraverso i secoli, nulla sembra essere cambiato: quanti Lazzaro muoiono davanti all’ingordigia che scorda la giustizia, al profitto che calpesta la carità, alla ricchezza cieca davanti al dolore dei miseri! Eppure il Vangelo assicura che le sofferenze di Lazzaro hanno un termine».
Non solo, il Pontefice ricorda che sono proprio i poveri, i miseri che ci ammaestrano. «Al diacono Deogratias, che gli chiedeva come essere un buon catechista», spiega papa Prevost, «sant’Agostino rispose: “Esponi ogni cosa in modo che chi ti ascolta ascoltando creda, credendo speri e sperando ami”. Cari fratelli e sorelle, facciamo nostro questo invito! Ricordiamoci che nessuno dà quello che non ha. Se il ricco del Vangelo avesse avuto carità per Lazzaro, avrebbe fatto del bene, oltre che al povero, anche a sé stesso. Se quell’uomo senza nome avesse avuto fede, Dio lo avrebbe salvato da ogni tormento: è stato l’attaccamento alle ricchezze mondane a togliergli la speranza del bene vero ed eterno. Quando anche noi siamo tentati dall’ingordigia e dall’indifferenza, i molti Lazzaro di oggi ci ricordano la parola di Gesù, diventando per noi una catechesi ancora più efficace in questo Giubileo, che è per tutti tempo di conversione e di perdono, di impegno per la giustizia e di ricerca sincera della pace».
Al termine della celebrazione il Pontefice, nel celebrare l'Angelus ha ricordato le vittime del tifone che si è abbattutto in Asia e ha annunciato che il prossimo primo novembre, nel corso del Giubileo per l'educazione, conferirà a san John Henry Newman il titolo di dottore della Chiesa.





