Caschi blu dell'Onu a Naqoura quasi al confine con Israele il 27 ottobre 202. Foto Reuters.
Beirut, nostro servizio
Per andare in Siria occorre andare in Libano. Non ci sono più voli occidentali per Damasco. Per la mente e il cuore è forse un bene. Perché a Beirut, un po’ almeno, alla Siria ci si prepara. È una fotografia terribile di come può diventare il mondo, Beirut. Bellezza, la montagna a pochi chilometri dal mare, si può vedere la neve e il blu del Mediterraneo. Grandi alberghi, ricostruiti dopo la guerra in un paese che è diventato un po’ Disneyland e un po’ Las Vegas per i paesi del Golfo e i petrodollari: perché quello che è proibito in altri paesi, anche se straricchi, a Beirut, invece, si trova. Alcool, gioco, esseri umani, per ogni servitù, abuso e capriccio. Poveri e centinaia di migliaia di rifugiati e profughi, sono un bacino inesauribile, e aumentano le possibilità di abuso. Molte gru, una parte della città e dei saliscendi con mura segnate, condizionatori d’aria e parabole, ma gli scambiatori caldo-freddo muti o arrugginiti. Migliaia di balconi e tende polverose che chiudono alla vista l’interno della casa. Anche da questo si distinguono le case delle famiglie musulmane, soprattutto sciite, da quelle degli altri. Barbieri e parrucchieri ovunque. Ma anche i grandi volti appesi per le strade nei quartieri meno centrali: martiri, vittime, o semplicemente persone conosciute nel quartiere che sono morte.
Sono già quattro le generazioni di profughi palestinesi, ma è difficile dire quanti sono davvero. Ne risultano registrati 479.000 all’Unrwa, più di 200.000 nei 12 campi esistenti. Negli anni sono cresciuti a dismisura, case misere, superfetazioni, a riempire tutti gli spazi e sopraelevando, mangiando tutto lo spazio, senza fognature. Molti dormono quando gli altri vanno a lavorare, perché per tutti non c’è spazio, neppure dormendo sui materassi per terra. Era già così all’inizio della crisi e guerra siriana. Dopo 12 anni è peggio. Anche quando fa 45 gradi fuori. Molti posti lasciati vuoti da chi se ne è andato – per questo non si sa se i palestinesi davvero siano invece 300.000, o 173.000 – a seconda delle fonti - sono riempiti dai profughi siriani, e 35 mila sono i “nuovi” profughi palestinesi che erano ospitati prima proprio in Siria.
I ragazzini vengono mandati a chiedere l’elemosina ai semafori e ai caffè. Con una matita e un pezzo di carta, però, se glieli metti in mano, possono stare ore. Come Mansoul, capelli lunghi e occhi neri. Nove anni di intelligenza e resistenza a tutto. E disegna un fiore invece di una casa diroccata, felice di far vedere che sa qualche parola di inglese: sun, sole, stem, stelo, roots, radici. Ma lo fa quando imbonisco e tengo alla larga suo fratello, undici-dodici anni, che vende fazzolettini, e che non si vuole fare fotografare. Ha imparato dalla strada, diffida delle foto non sa perché. E fa il maschio di famiglia con la sorellina. Ma non sa resistere a godersi quell’amicizia gentile, mentre aspetto per un appuntamento al caffè Younes, caffè dal 1935. Caffè buono davvero, anche per un italiano. Solo caffè, ma tostato bene, lì, davanti al grattacielo blu, il Sama building, Indépendance street, all’angolo del vialone. Non sa resistere nemmeno lui a disegnare, lui che andava alla scuola di pomeriggio, e adesso non più. Sì, perché fino a Natale i bambini siriani andavano alle scuole il pomeriggio, quando gli altri andavano a casa. Adesso non ci va più nessuno, solo alle scuole private o all’università, pubbliche e private. Ma la magia e il futuro stanno ancora in una matita.
È un mondo schizofrenico a due velocità, regresso all’età del buio e del freddo, e globalizzazione, mercati, internazionalità, giovani poliglotta. Grandi donne e grandi famiglie, come quella di Adlette Inati, primario di ematologia di fama internazionale all’ospedale Hariri, rimangono. Per curare anche i malati di talassemia, la malattia genetica del sangue più diffusa del mondo, rimangono. In una sanità che ha ridotto al 50 per cento la sua capacità. Non tradisce la sua gente, né i profughi. È una donna senza frontiere. Non dimentica l’ospitalità siriana quando i libanesi erano profughi al nord, durante la lunga guerra. Ma pezzi della sua famiglia, i figli, come tante migliaia di libanesi, sono all’estero, nel Golfo, a Cipro, in Europa, in America.
Le scuole, da Natale, sono state tutte chiuse, anche per i libanesi. Mancano i soldi. Non ci sono combustibile ed elettricità sufficiente. Dal 9 luglio 2020 sono state chiuse le due grandi centrali elettriche, e dallo stesso anno il Libano è in default. L’elettricità nelle case viene erogata 3 ore. Dipende dagli intervalli tra le tre ore e le successive tre. Molti palazzi hanno un generatore, per coprire alcuni intervalli. E permettere di non scongelare il cibo. Il business dei pannelli solari è veloce, ma riguarda i condomini che possono comprarli.
Il campo profughi informale, non strutturato, di Qab Elisa, nella Valle della Bekaa, che accoglie siriani scappati dalla guerra. La foto, scattata il 18 ottobre 2022, come tutte le immagini che corredano questo servizio, è dell'agenzia Reuters.
I CAMPI PROFUGHI. E I CORRIDOI UMANITARI DI SANT'EGIDIO
Lo Stato è insolvente, e le banche hanno congelato e sequestrato i depositi di tutti. Ci sono state rapine a (finta) mano armata, con armi giocattolo, semplicemente per farsi dare allo sportello più di 200 dollari, che è la cifra massima mensile concessa dagli istituti anche a chi ha migliaia di dollari sul suo conto. È il modo dio fare cassa, con i depositi in valuta. Questo ha creato problemi anche a chi, in Siria, riceveva da lì le donazioni per sopravvivere, anche ai religiosi, alle Chiese, alle ONG, accomunati al destino generale.
I profughi siriani in Libano, per l’UNHCR sono un milione e mezzo, registrati 825.000. La popolazione stimata nel 2017 era di 6 milioni di abitanti. Ma i numeri in Medio Oriente ballano sempre. Non c’è un censimento da molto tempo, perché potrebbe squilibrare la già instabile geometria del potere e la forma di governo. Il Parlamento è formato da 64 deputati cristiani e 64 musulmani o drusi. La demografia è cambiata da tempo, ma meglio non toccare un compromesso che ha permesso di chiudere l’ultima guerra del Libano. L’ultima. Perché guerra civile è iniziata nel 1958, trasformando la Corniche della bella vita e dei latin-lover in un campo di battaglia. I libri riportano due anni, 1975-76 al Prima guerra civile, poi quella del 1978, l’operazione Litani, e la vera e propria Guerra del Libano del 1982, segnata dalle stragi di Sabra e Chatila, dagli attentati alle ambasciate, il fronte dentro Beirut, la presenza dei caschi blu e la Missione di pace guidata dall’Italia, mentre si è sviluppata la Seconda guerra civile libanese, fino al 1990. Ma non è finita lì. Lo sappiamo. La guerra del Libano meridionale si è sviluppata in contemporanea, dal 1993 al nuovo millennio, e poi, una all’anno, dal 2006, la Seconda Guerra del Libano, poi il “conflitto libanese” del 2007 tra l’esercito libanese e i gruppi islamisti e quello del 2008, per poi fare parte dello scenario destabilizzato della guerra in Siria, dal 2011. Fino ad oggi, fino a domani. Fino a quando? Il Libano resta un miracolo, ferito, dissanguato. Come un uomo, una donna, che vive senza alcuni organi vitali, che autoproduce anticorpi, dove i migliori e i più abbienti, quelli che hanno possibilità sono altrove, mantenendo un piede nella vecchia casa. Un mondo di persone speciali non aiutato abbastanza dall’Occidente e dal resto del mondo ad essere quello che è: nonostante tutto un luogo di possibile democrazia e vita tra genti e religiose diverse. Se non si vince questa sfida della storia in Libano, difficile anche il pluralismo, la convivenza, la diversità, un futuro per i cristiani in Medio Oriente.
I residenti libanesi sono circa 4 milioni, centinaia di migliaia vivono all’estero, e quasi due milioni sono gli altri. Ospitati, ma ormai quasi tutti senza niente. Diventati una fonte di reddito per tanti libanesi.
E allora fa bene, come camera di compensazione, fermarsi a Beirut. Segni di ricchezza, segni di vita difficile, segni di vita invivibile, bisogno di futuro. E un presente che si chiama sempre ricostruzione, anche dei rapporti umani. La Penelope del mediterraneo.
La piazza de L’Étoile, La Stella, la rotonda con il palazzo delle Assicurazioni Generali, non si può raggiungere. Transennata tutta l’area, militari, filo spinato. Lì vicino, fiammante, la Grande Moschea Al-Omari con le cupole azzurre, e la cattedrale di San Giorgio. La piazza dei Martiri porta i segni degli scavi e della ricostruzione. I grandi murales con le foto delle vittime della terribile esplosione del porto, quando il 4 agosto 2000 sono esplose 2750 tonnellate di nitrato di ammonio e hanno spazzato via la zona del porto e le vie corrispondenti verso il centro, creando 250.000 nuovi senza casa, sono stati sostituiti. Su un muto ne campeggia uno splendido, enorme: HOPE. Su fondo azzurro incorniciato marrone scuro, largo come cinque baconi sovrastanti, sulla città disegnata in basso, scogli, mare, grattacieli, chiese e moschee, giganteggiano due colombi in amore. E una parola sola: Beirut.
Nel quartiere di Akrafieh dal Boulevard Président Elias Sarkis, che cambia nome e poi diventa Independence, si vede la sagoma del grattacielo blu e, più piccola, quella di un bellissimo palazzo di inizi novecento, di colore rossiccio, merlettato, colonne che reggono solai senza mura interne, massacrato dai proiettili. L’hanno lasciato così apposta, è il Beit Beirut, il museo urbano della memoria, e dentro sono conservati altri muri, scritte, un’esposizione permanente che mostra che fa la guerra. All’interno, al secondo piano, c’è conservato il Padiglione Libanese alla Biennale di Venezia: “Il posto che rimane”. Ma da fuori si vedono muri con intonaci scrostati, scritte in arabo. Ricorda il Muro di Berlino. Un altro murale, vicino a Piazza dei Martiri, celebra gli 80 anni di indipendenza del Libano: 1943-2023. Ma la scritta dice “Dependance”, celebra l’indipendenza mai compiuta davvero.
La protesta, la speranza, il dolore, è affidato ai muri. Come lungo il porto-container, che è stato ricostruito in gran parte. Ma due grandi strutture accartocciate e bruciate, in mezzo al mare di container colorati, fanno da memoria. Il muro basso di cemento che delimita tutto il lungomare racconta. “My government did this”. Questo, l’ha fatto il mio governo. E, a intervalli regolari, le foto delle vittime dell’esplosione, tra le bandiere libanesi e sagome scure sotto, lugubri. Non finiscono mai le memorie. Un murale recita soltanto: 144 uomini e 70 donne. Ma basta. Poco lontano c’è la “Cuisine de Marie”, una mensa che prepara 400 pasti al giorno, 150 vengono a prenderselo lì, 250 vengono portati alle famiglie. Anche lì, sul muro, all’interno, le fotografie di quasi 100 vittime, quelle del quartiere del porto. Chef Elia, Olga, padre Amitawk ne conoscevano tanti personalmente. Da fuori quel magazzino-hangar-mensa si riconosce anche perché a fianco c’è un bellissimo volto di Gandhi dipinto, alto due piani. Il quartiere di Qarantina – memorie di epidemie antiche - non dimentica, e non si può farlo nemmeno a Gemmaizeh street, la via storica, non lontana in linea d’aria, che parte dalla Piazza dei Martiri. Le guide la danno come il Greenwich Village di Beirut, Soho, oppure Brera e Trastevere. Il Convento Terra Santa, la chiesa e il convento dei francescani sono stati riparati, perché tetto e copertura della chiesa erano volati in parte via, ma un grande benzinaio schiacciato dall’onda d’urto sembra bombardato ieri. Il movimento di piazza nato dopo l’esplosione, che non vede futuro e che non vede la fine dell’inchiesta sulle responsabilità di chi aveva fatto accumulare quella quantità di sostanze chimiche infiammabili, sintetizza così, con una scritta larga trenta metri: “E’ la violenza organica dall’alto che crea la violenza individuale dal basso”. Bisogna immaginarsi un po’ Miami e un po’ ghetti fatiscenti, paradiso e inferno, distanti un quarto d’ora. I grandi mall, che non ci stanno nemmeno a Roma e a Milano, le grandi marche, ristoranti. E fame. Metà dei libanesi hanno qualche parente all’estero e vivono con la moneta buona che gli arriva. Agli altri restano le conseguenze di una della più grandi crisi economiche mondiale dall’Ottocento in un paese sviluppato. Difficile camminare per strada senza qualcuno che chieda, che offra, che speri in una briciola. I libanesi, anche quelli di livello basso, in qualche misura sono tutti “banchieri”, commercianti, cambiavalute, in qualche punto del loro DNA. Ma l’inflazione da più anni è 220, 200, 160, 123 per cento. Gli affitti costano 4 volte rispetto a due anni fa, il costo dei trasporti, in 10 anni, è aumentato 50 volte di più, l’insalata costa 500 volte di più. Nonostante questo, dalla Siria arrivano tanti in motocicletta o in miniscooter col rimorchio a comprare o a vendere bombole di gas, taniche di benzina e di olio di semi, perché a Damasco o a Beirut, alternativamente, non se ne trovano abbastanza, anche se il mazut, il gas di bassa qualità di una bombola per il riscaldamento, è salito a 20 dollari in Libano e in teoria, da 8 a 17 dollari in Siria. Ma è un traffico che va nelle due direzioni. Uno stipendio mensile che valeva 500 dollari adesso ne vale circa 50, a Beirut.
Ovunque in qualche casa, e nei campi di casette in muratura, ci stanno profughi siriani, che pagano caro e bruciano i soldi con cui sono venuti via. I palestinesi possono lavorare legalmente solo nei campi. I siriani possono stare, ma costa rinnovare il permesso di soggiorno temporaneo e il lavoro è alle condizioni offerte, in nero. È una non-vita. Non si può tornare indietro non perché è vietato, non solo per non fare un servizio militare lungo e da tempi di guerra, ma perché non c’è dove tornare. Non si può andare avanti perché è vietato, a meno di non rientrare nell’infinitesimale “ricollocamento” ONU o nel “Corridoio Umanitario” libanese della Comunità di Sant’Egidio.
È dal 2016, 2017 che il Libano è uno degli “hub”, da dove la Comunità ha creato per le famiglie più vulnerabili tra le tante la possibilità di venire in Europa legalmente. Con i documenti a posto. In aereo e senza trafficanti umani. Insieme, adulti e bambini. E che prima di arrivare, in Italia – ma anche in Belgio, Francia, Andorra, San Marino, e qualcuno in Germania, in Spagna in altro modo- c’è chi si è organizzato per accogliere, accompagnare, non lo stato, ma la società civile: famiglie, associazioni, parrocchie, persone. In questi anni 7000 persone che hanno ripreso a vivere, lavorano, dopo un anno, un anno e mezzo, parlano la lingua e restituiscono aiutando gli altri, una integrazione che funziona e che offre un modello integrativo all’accoglienza “di stato”, fortemente deficitaria sul piano dell’integrazione. Tanti, pochi? In un libro, La Grande Occasione. Viaggio nell’Europa che non ha paura, racconto che, “purtroppo”, questo è diventato praticamente l’unico canale per non rischiare di morire nel Mediterraneo, come a Cutro, o per non infliggere migliaia di chilometri di cammino a bambini che hanno conosciuto da quando sono nati solo la guerra: perché il ricollocamento internazionale è bloccato, per i contenziosi tra gli stati.
E allora è l’unica speranza e quella speranza piccola tiene in vita gli altri che aspettano in questo limbo dove è fatica vivere, anche mangiare, andare a scuola, avere un letto.
Con Maria e Youssef – Maria Quinto è la coordinatrice del programma dei Corridoi in Libano – attraverso la Beirut degli sciuscià e dei suv e capisco meglio il problema del lavoro dei profughi. Tanti minori e giovani e avere lavoro, mezzo-schiavi, perché è possibile avere un garante, il kafil, e con una agenzia si può arrivare e avere lavoro. Ma il passaporto resta legalmente nelle mani del datore di lavoro o della famiglia che adotta. Se si rompe quel rapporto si resta senza documenti e si è espulsi. In una casa una famiglia siriana, papà pensionato senza pensione, moglie e due figlie e un ragazzo che ha già subito l’asportazione della milza per le complicazioni della talassemia, forniscono le informazioni che mancano, la copia dei documenti, perché siano verificati per andare in Belgio. Sono fuggiti dal Califfato. Poi, sempre con Maria e Youssef andiamo a nord, riattraversiamo mezzo Libano, verso la Beqaa, per trovare un campo di tende di piccole dimensioni. È un lavoro – tutto volontario, di eccezionale professionalità, che si muove tra le norme europee e quelle dell’immigrazione dei singoli stati, la precarietà dei documenti, i regolamenti internazionali ed europei, il buon senso, la capacità di ascolto, che permette di dare un volto, un nome, una storia a un diritto umano.
Vicino a un gigantesco riciclo di recupero di ferro, e a una lavorazione della pietra per rifare le case, tutto è bianco nel sentiero prima di arrivare. Poi tendoni col marchio sbiadito UNHCR, ma senza UNHCR. Molti siriani affittano un pezzo di terra invece di una casa, provano a vivere così. Lì sono nate due piccole baby-capre, da due mamme-capre. Una è bianca e una è nera e marrone con un orecchio bianco. Nel prato crescerà con la primavera qualcosa, tra le lamiere rotte e la polvere di pietra. Una grande famiglia, che ne contiene tre, viene da Idlib e dalle campagne verso Aleppo. Il più anziano ha lavorato qualche anno in Africa. Lì in Libano sono già nati due nuovi bambini. Le età vanno da 1 a 60. Una nonna studia da sola l’inglese per quando sarà utile. Mostra orgogliosa un quaderno giallo. Belle facce, tutti. Vere. Bambini irrestistibili. Mamme con l’hijab con visi giovani e sorrisi delicati. Youssef traduce e con Maria raccolgono nuovi dati dalle loro storie. Fanno domande precise. Confrontano le versioni, aiutano a dire la versione vera perché altrimenti non sarà possibile che vengano ammessi alla frontiera. È un lavoro certosino. Ma è anche il segreto del successo dei “Corridoi”, del fatto che i respingimenti delle domande di asilo sono vicini allo zero, mentre oscillano dal 35 al 70 per cento a seconda dei paesi. Maria è ferma nello spiegare, ma non perde mai la calma e gli altri si fidano, si sentono in buone mani. I bambini giocano sui tappeti per terra nella tenda a due stanze, parliamo in dodici. È la vita da profughi, ma con un tocco di allegria. Qui, almeno, c’è un pezzo di terra e due capre che forniscono latte e caprette. Questa famiglia non è attratta dai soldi del contrabbando, che è l’altro veleno che le guerre e la crisi portano con sé.