«L’idea che l’Italia abbia ottenuto meno di quanto chiesto alla Conferenza di pace di Parigi è falsa. Si tratta di una narrazione che serviva alla politica per distogliere gli italiani dal fatto che il Paese versava in condizioni terribili. S’è preferito gonfiare il petto dichiarando: abbiamo vinto la guerra, ma non ci vogliono dare quanto ci meritiamo». Ad affermarlo è lo storico, scrittore e volto noto televisivo Alessandro Barbero, 60 anni, docente di Storia medievale nonché studioso della Grande Guerra.
Quindi l’espressione di “vittoria mutilata” coniata da Gabriele D’Annunzio resta solo un mito politico?
«La pace ha dato all’Italia tutto quello che aveva chiesto al momento dell’ingresso in guerra. E, comunque, molto di più di quello che avremmo dovuto avere se si fosse fatta una pace giusta, come voleva il presidente americano Woodrow Wilson, cioè rispettosa dei diritti dei popoli. Abbiamo ottenuto non solo i territori italiani, ma anche quelli abitati da tedeschi e slavi. Perciò non avremmo avuto alcun motivo di lagnarci al tavolo delle trattative; ma l’appetito crebbe a dismisura, alimentato dai nazionalisti innamorati dell’idea che l’Italia potesse diventare una grande potenza nei Balcani e nell’Adriatico. L’idea della “pace tradita” è stata creata artificialmente. Da qui la pretesa di Fiume, che nessuno aveva mai chiesto prima».
Dalle testimonianze di chi la guerra l’ha combattuta emerge un racconto diverso, ben poco retorico...
«Emerge un’altra guerra, ma anche un’altra Italia: un Paese più complesso di quanto si pensi. Quella guerra l’ha combattuta e voluta un’Italia di ufficiali, cittadini, ex studenti, provenienti da una borghesia imbevuta dell’ideale risorgimentale della Patria da salvare, del sacrificio necessario. Questi si facevano ammazzare, credendoci. E, invece, sotto di loro, c’era un mondo di soldati contadini che all’opposto vedevano la guerra come una sciagura assurda. Obbedivano perché non sapevano fare altro e perché non potevano fare altrimenti, pena la fucilazione. E andavano a morire bestemmiando e pregando di poter tornare a casa per rivedere la moglie».
È vera l’idea che la Grande Guerra ha unificato l’Italia?
«Del tutto enfatizzata. Certo, combattere indossando la stessa uniforme grigioverde ed eseguendo ordini in italiano ha ulteriormente contribuito a un sentire comune, ma anche questo mi sa di retorica. È uno sbaglio di prospettiva. L’Italia era già profondamente unita. Si parlava in dialetto, ma tutti sapevano perfettamente di essere italiani. In qualunque testimonianza della nostra cultura dall’Unità d’Italia agli inizi del ’900, le distinzioni interne al Paese sono menzionate assai di rado. Il libro Cuore, d’altra parte, in questo senso è un manifesto programmatico. C’è un’unica lingua ufficiale e letteraria che tutti, bene o male, capiscono, anche se la parli male e la scrivi peggio. L’esercito italiano era programmaticamente composto mescolando fanti da località diverse: ogni reggimento reclutava in cinque, sei città diverse, sparse per l’Italia, fatta eccezione per la Brigata Sassari, tutta reclutata in Sardegna. Quando un pastore siciliano emigrava si univa a una comunità italiana. E si riunivano come italiani sentendosi tali».
Le lettere e le cartoline da e per il fronte erano i “social” di allora. Si è calcolato che ne partissero anche due milioni e 700 mila al giorno. Un vero rito della scrittura, un patrimonio di memoria eccezionale...
«Quello delle lettere è stato un fenomeno straordinario: in tutta la guerra si conta che siano stati inviati cinque miliardi tra cartoline e lettere. Ciò accadde perché per la prima volta nella loro vita i soldati contadini rimanevano lontani per mesi o anni dalla loro famiglia. L’emigrante che andava in Francia o in Germania tornava presto e chi emigrava in America non tornava più. E l’esercito cercò in ogni modo di facilitare le comunicazioni postali. Anche gli analfabeti, che tra i giovani erano ormai minoranza, scrivono o si fanno scrivere i messaggi in italiano, seppure sgrammaticato».