Quando soffia lo scirocco, il cielo diventa bianco e l’aria sembra sobbollire a fuoco lento. Incassato in un vallone nascosto, l’hot spot di Lampedusa si vela di sabbia e l’atmosfera si fa pesante e inquieta. Dalla Siria, la stessa terra da cui arriva questo vento caldo e molle, negli anni sono approdati qui migliaia di profughi. Cristiani e musulmani in cerca di una via di scampo ai massacri di Damasco, Homs, Aleppo. È la storia, ad esempio, di Ahmad e Mohammad Hazima, due fratellini che oggi dovrebbero avere 14 e 11 anni. Tocca usare il condizionale perché Ahmad e Mohammad sono spariti nel nulla. Da tre anni i genitori li cercano disperati. Le loro tracce si sono perse in mare l’11 ottobre 2013, quando il barcone su cui erano, insieme a papà Refat e a mamma Feryal, è affondato in un tratto di Mediterraneo tra Lampedusa e Malta.
«I naufraghi furono tratti a bordo in parte dalla Guardia costiera italiana, in parte dalla Marina maltese», racconta suor Paola, unica religiosa oggi presente sull’isola di Lampedusa, che si è presa a cuore la vicenda. «I genitori furono salvati dai maltesi, i bimbi dagli italiani. E dovrebbero essere stati sbarcati qui a Lampedusa. C’è un video su YouTube che mostra uno dei due ragazzini a bordo di una nave della Marina. Eppure nessuno sa dove siano. In Sicilia sono arrivati sani e salvi. Dopo di che, puf, scomparsi!».
Tecnicamente parlando, Ahmad e Mohammad sono «minori stranieri non accompagnati (Msna) irreperibili». Ma non c’è camuffamento linguistico che possa edulcorare lo strazio dei parenti: Feryal e Refat vivono ormai ad Amburgo, in Germania, ma ogni anno in occasione della Giornata del 3 ottobre, in memoria delle vittime dell’immigrazione, tornano a Lampedusa. Durante la marcia della memoria che si è snodata dal centro della città fino alla Porta d’Europa, Feryal, aggrappata al braccio di suor Paola, non ha smesso di piangere un istante. «Forse sono stati identificati con nomi errati, o forse per paura hanno fornito generalità false», prosegue la religiosa. «Forse si sono affidati a persone sbagliate. Forse c’è di mezzo qualche organizzazione criminale. Ma dove sono finiti? Dove finiscono tutti questi minori che scompaiono nel nulla?».
Nell’olocausto dei migranti che avviene quotidianamente nel Mar Mediterraneo, quello dei ragazzi minorenni è un dramma nel dramma: nei primi 9 mesi del 2016 almeno 600 bambini hanno già perso la vita o sono stati dichiarati dispersi in mare. Un dato allarmante, che supera il numero già tragico dei 500 morti nei 12 mesi del 2015. E poi ci sono quelli, come Ahmad e Mohammad, che svaniscono dopo lo sbarco sulle nostre coste.
«Al momento, nell’hot spot di Lampedusa sono ospitati 37 minori, provenienti da Somalia, Nigeria, Etiopia ed Eritrea», spiega Alessio Fasulo, responsabile della “Frontiera Sud” per Save the Children. «Hanno storie e sogni diversi: c’è chi scappa da Paesi dittatoriali e oppressivi, chi fugge da zone di guerra, chi cerca una via di scampo da una miseria intollerabile. Di certo c’è che il loro numero sta aumentando sempre più: da gennaio 2016 a oggi, sono arrivati sulle nostre coste oltre 20 mila bambini, di cui 18.400 “non accompagnati”. Negli hot spot dovrebbero restare pochissimi giorni e poi essere trasferiti in centri di accoglienza più adatti. Ma dato il loro numero elevato e i pochi posti disponibili, spesso l’attesa si allunga a varie settimane. E così alcuni, per impazienza o perché hanno desiderio di arrivare a una meta precisa, scappano. Essendo soggetti vulnerabili, in queste fughe si espongono a un sacco di pericoli, in particolare il rischio di ogni genere di sfruttamento. E capita anche che se ne perdano totalmente le tracce».
Per la legislazione italiana, i minori stranieri non accompagnati sono «inespellibili» e la loro tutela deve essere garantita fino alla maggiore età. Ma restano adolescenti fragili, che hanno attraversato l’inferno e che, una volta giunti in Italia, si ritrovano in uno strano purgatorio, con lingua da imparare, cultura da scoprire e affetti da ricostruire.
Ismail, ad esempio, ha ancora un’aria timida e stranita: diciassette anni, è partito dalla Sierra Leone e, dopo un viaggio durato tre mesi, è sbarcato in Sicilia il 24 maggio scorso. Ora è a Milano, in attesa di un posto in una comunità di accoglienza. Nel frattempo, segue le lezioni di italiano al centro diurno “Civico Zero” di Save the Children, non lontano dalla Stazione Centrale: «La povertà a casa mia era enorme», si limita a dire. «Per la mia vita volevo... a better future», un futuro migliore.
Kareem, diciassettenne ghanese di Cape Coast, sembra più a suo agio del suo coetaneo della Sierra Leone: arrivato su un barcone a Siracusa nella primavera del 2015, da un anno è ben inserito in una comunità di accoglienza milanese. Ma la sua storia non è meno drammatica: «Durante una lite familiare, quando era incinta di me, mia madre è stata quasi accecata con l’acido», racconta a voce bassa. «Da allora non ha più potuto lavorare e io ho dovuto darmi da fare sin da piccolo. Per questo, a luglio 2014 ho deciso di partire. Ho attraversato il Ghana, il Burkina Faso e il Niger lavorando su un camion che trasportava cipolle. Arrivato in Libia, sono stato arrestato. Alla fine sono riuscito a evadere e a partire su un barcone». Come vedi il tuo futuro? «In Italia sto bene. Vorrei fare il calciatore, sono bravo come ala sinistra», risponde. «In alternativa, potrei fare il badante: mi piace prendermi cura delle persone anziane».