C’è una parola inconsueta, iconoclastia, che certo non appartiene al discorrere quotidiano, dilagante nei media di questi giorni, quando si discute sul comportamento di coloro che esprimono il loro dissenso in maniera violenta nei confronti di monumenti a personaggi ambigui, se non negativi, della storia, decapitandole o rottamandole. Ne hanno veramente diritto? Vengono in mente due riferimenti storici. Uno al dibattito postbellico sulla necessità di conservare, a perpetua memoria, i siti dei lager nazisti, almeno in forma parziale e, oserei dire, simbolica. I viaggi della memoria concorrono alla formazione civica dei ragazzi e delle ragazze delle nostre scuole. L’altro rimanda alla violenza distruttiva dei talebani nei confronti delle statue del Buddha di Bamiyan, che due anni dopo, nel 2003, vennero inserite dall’Unesco fra i patrimoni mondiali dell’umanità, cercando di recuperarle.
La logica che presiede questi gesti fondamentalisti è la logica binaria del vero/falso, bene/male, giusto/sbagliato, che esclude le sfumature e le contaminazioni di cui la storia è intrisa e da cui è percorsa. Se agli occhi di un islamista la religione buddhista è falsa e ogni falsità deve essere annientata e distrutta, allora dovrebbe essere annientato ogni simbolo delle altre appartenenze religiose, fra cui quella cristiana. Con questo criterio per esempio si è distrutta (a più riprese) la biblioteca di Alessandria, con enorme perdita di risorse culturali, scientifiche, filosofiche e teologiche per la storia dell’umanità. Così se, agli occhi dei distruttori di statue odierni, da quelle di Edward Colston e di Cristoforo Colombo negli USA a quella (auspicata) di Indro Montanelli a Milano, il razzismo è un male, allora bisogna annientare tutto ciò che lo richiama. Così dovremmo bruciare gli scritti di Ungaretti, Pirandello o Gentile e tanti altri, che aderirono al fascismo.
La parola “iconoclastia” ci riporta alla grande crisi che la Chiesa ha vissuto nell’VIII secolo, risolta, non senza strascichi polemici, dal Concilio II di Nicea, che si è pronunziato a favore del culto delle icone, nei confronti di quanti, fondandosi sulla tradizione ebraica e dell’Antico Testamento, ritenevano che, seguendo una delle dieci parole, nessuna immagine dovesse essere consentita, onde evitare l’idolatria, sempre incombente tentazione per i credenti.
I contesti sono certamente distanti, ma possiamo connetterli. Abbiamo bisogno di immagini, statue, rappresentazioni sia nel campo religioso che in quello laico, perché l’uomo è un animale simbolico. Quando l’immagine di un personaggio viene dipinta o scolpita e innestata nelle piazze o nelle strade delle nostre città, allora vuol dire che quella persona è diventata un mito. Ma non ogni mito è necessariamente positivo e da imitare, vi sono anche rappresentazioni che possono diventare moniti per quanti non hanno partecipato alle loro scelte per esempio razziste e per i giovani che non hanno vissuto nel loro contesto storico. In questo senso dobbiamo imparare a non idolatrare chi è rappresentato. Non siamo iconoclasti, ma neppure iconoduli (in senso idolatrico). Del resto la storia non si impara solo sui libri, ma anche attraversando le nostre città con le loro piazze e le loro strade e il passato non si cancella solo perché si abbatte una statua o si bruciano dei libri, rimane inscritto nel nostro cuore e nella nostra mente, che si ribella all’oblio anche del negativo e della sua immane potenza.
Per tornare al termine icona, pensiamo all’analogia fra le icone scolpite o disegnate delle statue e dei quadri e a quelle presenti sui nostri monitor, esse hanno in comune la capacità di portarci altrove: quelle del computer aprendoci un programma o un sito altro rispetto a quello in cui ci troviamo, quelle cittadine rappresentandoci un passato che non sempre è stato benefico o veritiero, che ha conosciuto il bene e il male, il vero e il falso, la guerra e la pace, il razzismo e la convivenza pacifica. Sta a noi allora educare ed educarci a leggere queste tracce, piuttosto che a distruggerle, attraverso una scorciatoia negazionista, che incrementa la violenza e l’intolleranza.