Già una monaca d’immensa erudizione biblica e non solo, che nasconde lo sguardo e gli occhi sotto il velo per timore di non essere all’altezza, è l’umiltà che si fa persona, secondo la Regola di san Benedetto: spendi una parola solo quando è più preziosa del silenzio. Da far tremare la nostra vanità. Ma è l’inizio dell’incontro che lascia senza fiato: «La preghiera non è tanto un argomento di cui parlare, quanto un mistero di grazia da sperimentare».
L’istinto è scivolare via, chiudere il taccuino e sperare che torni presto il barcaiolo. Eravamo venuti qui per “parlare” di preghiera: isola di San Giulio, provincia di Novara, un angolo di pace che galleggia sul Lago d’Orta, monastero benedettino Mater Ecclesiae, circa 70 monache, 13 novizie, alcune hanno meno di 30 anni; una è laureata in Medicina, una in Architettura, un’altra in Chimica, tre in Scienze dell’educazione. In realtà sono di più, perché 14 sono uscite da San Giulio e hanno fondato un priorato in Valle d’Aosta, altre sette sono a Fossano, provincia di Cuneo. Cento monache di clausura sbocciate da una sola scintilla spirituale.
È tutto merito (anche se non lo ammetterà mai) di Anna Maria Canopi, la madre badessa, sbarcata qui sull’isola l’11 ottobre del 1973, aveva 42 anni, con appena cinque “sorelle”, che il giorno di Pasqua hanno festeggiato «con molta gioia» il suo ottantesimo compleanno. Questa donna minuta e scarna nella sua fisicità, ha un carisma spirituale che ha trasformato un piccolo “cenacolo” di monache nell’Abbazia più fertile d’Europa.
Lei ripara ancora lo sguardo sotto il velo, si fa sempre più piccola, quasi a sparire nel suo abito di benedettina, abbassa la voce, ne modera il tono, e misura le parole per non sciuparle. Nessun merito. Solo una “matita”, come quella di Madre Teresa, che però qui a San Giulio non scrive sulle strade degli ultimi di Calcutta, ma disegna orizzonti di contemplazione e di preghiera.
Già, la preghiera. Come si fa, oggi, a sperimentare la preghiera, Madre Canopi?
«Cercando di stabilire un contatto vivo, interiore, con Dio. Ogni uomo ha nel cuore la preghiera, ognuno ha qualcosa in sé per alzare lo sguardo verso il cielo. Pregare significa essere consapevoli di questo. È come essere “invitati”, immersi in un mistero. Un dono, una grazia, qualcosa che è in noi, innato, che non si può spiegare, se non vivendolo».
Fuori da questo monastero c’è una vita un po’ distratta, congestionata. Figli, scuola, lavoro, spesa, bollette, conti da far quadrare, a volte, soprattutto tra i giovani, precariato e umiliazioni. Non c’è tempo per pregare...
«Se c’insegue l’affanno, resta solo il vuoto, o forse lo spazio di una preghiera meccanica, ripetitiva. Bisogna ritagliarselo il tempo per un’invocazione, e farlo alla “presenza” di Dio. Occorre che la preghiera abbia un “volto“ verso il quale elevarsi. Non solo una fuggevole richiesta di aiuto, d’intercessione, una scontata abitudine frutto dell’educazione religiosa; ma un incontro vero, uno stare alla presenza del Signore, per un colloquio intimo e profondo, lasciandosi stupire davanti al mistero: con la poesia delle preghiere, ma anche in assenza di parole articolate, nella meditazione, fuori e dentro di sé».
È difficile, Madre. Nei monasteri tutto è contemplazione: canti, salmi, musica. Anche il silenzio, persino il lavoro. Fuori di qui è diverso, quasi impossibile...
«Si può “fare” preghiera. Oppure “essere” preghiera. Ma per avere coscienza di sé bisogna tacere, quasi annullarsi, immergersi nel silenzio. Come diceva sant’Agostino, entrare in noi stessi. Così nasce la preghiera che vola verso il Padre. Certo, se la nostra vita è frenetica, se dobbiamo a tutti i costi allungare la notte per allungare la vita, e il mattino dopo alzarci all’ultimo momento, correre per non arrivare in ritardo in fabbrica o in ufficio, allora è più difficile “essere” preghiera».
Un consiglio da chi vive nel silenzio...
«Se diamo all’esistenza la misura della calma interiore, della profondità, magari svegliandoci mezz’ora prima per stare davanti a Dio, alla sua presenza, con in mano un Salmo, o con un’invocazione scritta che conosciamo dall’infanzia, allora tutta la giornata sarà “abitata” dalla preghiera, e così le relazioni, gli affetti, l’amicizia, le piccole gioie, persino le delusioni e il dolore».
Meditazione, contemplazione. Molti sono suggestionati da queste dimensioni sulla via di altre filosofie, come lo Zen. Ci sono punti di contatto con la “nostra” spiritualità?
«Sì, ci possono essere, nella scelta di scoprire sé stessi nel vuoto della mente. Ma è diversa la prospettiva: loro rincorrono solo sé stessi e lì finisce la ricerca. Noi aspiriamo al volto della Croce. Abbiamo ospitato per alcune settimane una monaca buddhista. Ha voluto fare la nostra vita, alzarsi con noi, condividere ogni istante, lavoro e preghiera. Quando è ripartita ci ha lasciato il senso della sua esperienza in poche parole: “Noi badiamo soltanto al nostro io, il silenzio è per illuminare noi stessi, siamo semplicemente noi il fine di tutto. Voi siete qui per una consapevolezza universale, per incontrare Dio e avvicinarlo agli uomini”. È così: qui a San Giulio si prega anche per i fratelli assenti, per tutti, per chiunque. Anche per lei che scriverà questo articolo».
Mai preghiera è stata più necessaria e indispensabile.