Da sinistra, Ilario Bortolan, presidente dell'AIRH, il condirettore di Famiglia Cristiana e Maria con te Luciano Regolo e il principe Sergio di Jugoslavia, figlio di Maria Pia di Savoia.
Ecco Mafalda di Savoia impugnare la bandierina per dare il via a una corsa d’auto degli anni Venti un secolo fa, o sorridente, da bimba, con il fratello Umberto, vestito alla marinaretta, e le tre sorelle, Jolanda, Giovanna e Maria, o ancora col velo e l’abito in stile imperiale nel giorno delle nozze, col marito Filippo d’Assia, principe tedesco. Solo alcune delle immagini della mostra dedicata alla secondogenita di Vittorio Emanuele III e della regina Elena, promossa a Torino dall’Associazione Internazionale Regina Elena Odv (AIRH) e dal Coordinamento Sabaudo nell’ottantesimo anniversario della sua scomparsa, nel campo di sterminio di Buchenwald.
In vetrina nel Corridoio di Ponente della Palazzina di Caccia di Stupinigi copertine d’epoca, cartoline (molte ottenute da scatti della madre, appassionata di fotografia), stampe e altri souvenir che fecero conoscere e amare “Muti” o “Mauve”, com’era chiamata in famiglia la principessa vittima della barbarie nazista, agli italiani nei primi decenni del Novecento, un’epoca lontana, per lei spensierata, quando nulla faceva presagire il triste destino che l’attendeva.
La mostra ha aperto i battenti lo scorso 23 settembre, data non casuale perché proprio quel giorno “Muti”, nel 1925, sposò al castello di Racconigi il suo “Fili”, dal quale ebbe quattro figli, mentre nel 1943, rientrata a Roma dalla Bulgaria, dove aveva voluto partecipare alle esequie del cognato re Boris III, consorte di Giovanna di Savoia, venne catturata nella sua dimora, villa Polissena, con l’inganno, dai nazisti. Le dissero che il marito, speciale messo diplomatico della Germania presso l’Italia, di cui non aveva più notizie da 5 mesi, stava per chiamarla presso l’ambasciata tedesca. Ma Filippo, che provò a insistere con Hitler che lasciasse uscire l’Italia dalla seconda guerra mondiale, era stato già arrestato da Hitler e deportato nel Campo di concentramento di Flossenbürg. Così, giunta davanti a Villa Volkonsky Mafalda fu bruscamente caricata su un’altra auto e condotta a Ciampino, dov’era pronto l’areo che la condusse, forse dopo una sosta a Bolzano, a Monaco di Baviera, da dove fu poi deportata a Buchenwald.
«È molto importante che i turisti che vengono ad ammirare le bellezze architettoniche della reggia possano soffermarsi anche su importanti approfondimenti di questo genere, rivivendo le emozioni delle personalità che vi passarono», ha detto Marta Fusi, direttrice della Palazzina di Caccia di Stupinigi. Mafalda vi venne più volte da piccola con i genitori a visitare la nonna Margherita che vi si stabilì per un lungo periodo dopo l’assassinio del marito, Umberto I.
La figura di Mafalda, donna piena di gioia di vivere e dai molteplici interessi (dall’archeologia alla danza o all’arpa che suonava con maestria), animata da uno spontaneo slancio verso i bisognosi che aveva ereditato in pieno dalla madre Elena, nata principessa del Montenegro, è stata rievocata dal nostro condirettore Luciano Regolo, autore di diversi saggi sulla storia di Casa Savoia e presidente Presidente del Comitato, creato all’interno dell’AIRH, per promuovere la ripresa dell’iter per la beatificazione della stessa sovrana Elena, in una fase di stallo dopo l’avvio in Francia, a Montpellier, un ventennio fa.
Madre e figlia, furono animate dalla stessa volontà di donare un futuro migliore ai sofferenti e dall’attitudine a non perdere mai la speranza neppure nelle prove più dure. Muti non la mantenne persino nell’orrore di Buchenwald, continuando a modellare col fango statuine per i bimbi internati, o a mettere da parte per loro fette di pane nero e zucchero, dai magri pasti che riceveva. E a lei corse il pensiero di Elena, quando pochi mesi prima della sua morte per un tumore incurabile, volle andare a Lourdes e, nella grotta, davanti al simulacro della Vergine, chiese al seguito di non pregare per lei ma per tutte le mamme che avevano perso dei figli in una guerra, che lei aveva cercato di scongiurare, scrivendo nel 1939 alle sei sovrane delle Nazioni europee ancora neutrali che «tutte le madri sono madri non importa di quale Nazione, per questo dobbiamo operare tutti per la pace». Parole che nel contesto internazionale odierno risuonano di drammatica attualità.
A presentare nei dettagli l’esposizione, visitabile gratuitamente fino al 3 novembre con il biglietto d'ingresso nella reggia, è stato il cavaliere Pierangelo Calvo, vicepresidente per l’Italia dell’Associazione Internazionale Regina Elena, che, nel 1989 ha istituito il Premio internazionale per la pace Mafalda di Savoia-Assia e nel 2019 a Chambéry ha dato vita al Centro Studi Principessa Mafalda.
La locandina della mostra.
Al vernissage erano presenti anche il presidente internazionale dell’AIRH, principe Sergio di Jugoslavia, figlio di Maria Pia di Savoia, primogenita degli ultimi sovrani, Umberto II e Maria Josè, che il giorno seguente ha festeggiato i suoi novant’anni, e quello Nazionale Ilario Bortolan, con altri rappresentanti dell’associazione che prosegue l'impegno umanitario di Elena Petrovic Njegos: Milo Ferrua, Andrea Carnino, Alfio Torrisi, Carmen Cadar, Claudia Rusu, Paolo Facelli, Silvano Borca, Rita Salvini Antonazzo. Tra gli intervenuti, poi, Vincenzo Corraro, assessore alla cultura di Reano e Luigi Corino, direttore del Museo fotografico di Isola d’Asti.
Sempre lo scorso 23 settembre, nella mattinata, una delegazione dell'associazione si è recata sul piazzale Mafalda di Savoia antistante il Castello di Rivoli per deporre un mazzo di fiori tricolori ai piedi del monumento e poi al Cimitero Monumentale per deporre un cuscino di fiori sulla tomba del generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, capitano di Roma città aperta e della consorte Jolanda di Savoia, destituito dai tedeschi nello stesso giorno della cattura della cognata, che aveva cercato invano di scongiurare, con una drammatica corsa a villa Polissena, dove non riuscì ad avvertire Mafalda dell’imminente pericolo.