Quando Marco Masini entra, nella stanza dove ci incontriamo risuonano le note di Spostato in un secondo , il disco che prende il nome dalla canzone con cui ha partecipato all’ultimo Sanremo. Le moderne sonorità elettropop convivono con testi intimisti in cui il filo conduttore è il tempo che passa. «Sono andato alla ricerca di autori giovani, in grado di aprirmi a pensieri nuovi e li ho filtrati attraverso la mia esperienza. Con Spostato in un secondo esprimo un desiderio: come sarebbe bello se avessimo a disposizione una macchina che ci facesse vedere le conseguenze di una nostra decisione un attimo prima di prenderla, in modo da evitarci così tanti errori. In questi tempi estremamente veloci ci manca la lucidità, la nostra parte più razionale è soffocata da quella più istintuale che ci fa lottare come fanno gli animali per affermare il proprio predominio sugli altri».
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Che rapporto hai con i tuoi errori?
«Rileggo la mia vita, ma non la rimpiango. Ho commesso tanti errori in passato, personali e artistici. Li ho metabolizzati e ora sono come una corazza, anche se ogni giorno mi metto in discussione. Ma non credo che il treno passi una volta sola. La vita è sempre nelle tue mani, nelle scelte che fai».
Nella canzone Guardiamoci negli occhi canti: “Qualcuno sta cercando di levarci il gusto di provare, di esistere”. A chi ti riferisci?
«Ai tanti incantatori che vediamo in giro, da Trump in giù, che ci appaiono talmente forti e sicuri da farci venire la tentazione di delegare a loro la soluzione di tutti i grandi problemi. E invece non dobbiamo mai essere schiavi delle nostre scelte».
Perché hai deciso di tornare a Sanremo?
«Ho 52 anni e alla mia età si tende non dico a non avere più sogni, ma a diventare abitudinari, a rinunciare a imbarcarsi in nuove avventure. Invece, il fatto di ritrovarmi sullo stesso palco con un ragazzino di 20 anni appena uscito da un talent e che mi vuole fare le scarpe è molto stimolante. Io vivo di questa sfida quotidiana con me stesso. È la stessa molla, credo, che ha dato la forza a Roger Federer di vincere gli Australian Open di tennis a 36 anni».
È nota la tua amicizia trentennale con Carlo Conti. Ma è vero che a quei tempi eri tu il burlone del gruppo?
«Sì, stavamo sempre insieme io, Carlo, Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Tutti fiorentini e tutti con la battuta pronta. Io ero quello più casinista perché dimenticavo le cose, arrivavo sempre in ritardo. Se dovevamo andare a cena alle 8 e mezza, alle 8.29 Carlo era già seduto al tavolo. Io invece arrivavo almeno tre quarti d’ora dopo... Ma tra noi è sempre rimasto un grande e sincero affetto».
Questa immagine di te è molto diversa da quella che ti ha accompagnato sin dall’inizio della tua carriera, quando cantavi canzoni come Disperato ...
«Mi hanno etichettato come cantante triste, ma non lo ero. Mi sono soltanto limitato a dare sfogo alla rabbia, allo stato confusionale che provavano i ragazzi come me. Negli anni ’80 i politici hanno iniziato a sperperare i soldi per le giovani generazioni, negli anni ’90 c’è stata Tangentopoli, i vecchi partiti sono crollati e noi ci siamo ritrovati senza punti di riferimento. Oggi credo che sia anche peggio. Tornando a me, allora ero arrabbiato, ma non fragile, perché una persona fragile tende a nascondersi. Io, al contrario, ero spavaldo».
In quel periodo avevi scritto una canzone bellissima, Dio non c’è , dedicata a don Ernesto Balducci, il sacerdote fiorentino profeta della pace, morto in un incidente stradale nel 1992. Il protagonista della canzone eri tu?
«No, un mio amico che lo conosceva bene. Ho cercato di raccontare il suo smarrimento di fronte a una morte che ai suoi occhi appariva inspiegabile e che aveva messo in crisi il suo rapporto con la fede. Per quanto mi riguarda, Dio si manifesta proprio in questi grandi uomini che hanno il coraggio di andare controcorrente».
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Qual è il senso della canzone che chiude il tuo album, Una lettera a chi sarò ?
«È la lettera che avrei voluto scrivere a mio figlio. Ma siccome non ne ho avuti, l’ho scritta a me stesso per mettermi in guardia dagli errori che potrò fare».
Come “non aver sfiorato abbastanza mani” o non aver “toccato abbastanza mari”...
«Sì, è come un libretto di istruzioni che mi immagino di trovare in tasca tra dieci o vent’anni. Il bello è che una canzone così intima non l’ho scritta da solo, ma insieme a un giovane autore, Antonio Iammarino».
Ma perché escludi la possibilità di diventare padre? C’è gente che ha figli a un’età molto superiore alla tua...
«A 40 anni lo desideravo molto. Ho anche scritto una canzone su questo, L’uomo volante , con cui vinsi Sanremo. Ma ora ho amici coetanei che sono già nonni. E non vorrei che il bambino mi chiamasse babbo ma mi vedesse come un nonno. Però ho imparato a non coltivare certezze assolute e a lasciarmi sorprendere dalla vita».
Foto Ansa