«Se il Santuario Lauretano è veramente la Casa di Nazareth in cui l’Angiolo annunziò a Maria Santissima la Incarnazione del Verbo, questa Casa venuta in un modo miracoloso dalla Palestina alle spiagge d’Italia, e qui onorata per il corso di tanti secoli dal concorso e dal consenso di tutti i popoli, è propriamente una voce perpetua, che manifesta e giustifica la storia e i dogmi del cristianesimo». Questo l’incipit del dotto saggio La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, scritto nel 1832 dal conte Monaldo Leopardi, padre del celebre Giacomo, per difendere l’autenticità della dimora mariana e il suo «prodigioso arrivo» nelle Marche, «bersaglio alle contraddizioni degli infedeli, al motteggiare degli eretici e alla critica di non pochi scrittori cattolici».
Il Conte Monaldo Leopardi, il saggio sulla Santa Casa di Loreto e il metodo scientifico contro le accuse di fanatismo
Per quanto Monaldo fosse religioso e devoto mariano, in quest’opera seguì un metodo scientifico, meticolosamente legato alle fonti, proprio per eludere ogni accusa di fanatismo dai tanti colti convinti che solo la superstizione popolare potesse credere che la Santa Casa Lauretana fosse proprio quella in cui aveva vissuto Maria.
Smentì per esempio con dovizia di dettagli che l’evento prodigioso con cui un eremita avrebbe ricevuto la conferma dell’autenticità della dimora fosse databile al 1296, come riportato in una cronaca redatta nel 1465 da Pier Giorgio di Tolomei, detto il Teramano, «Governatore della Sancta Casa». Contestando la traduzione dal latino della trecentesca “tabula” (tavoletta), fonte del “cronista”, infatti, sostenne che l’apparizione della Madonna presentatasi «nell’anno del Signore 1296» a un «divoto» per dirgli che quella lauretana era proprio la sua casa, non aveva nulla a che vedere con il fenomeno luminoso cui aveva assistito l’eremita. Secondo il conte, il «divoto» era un anonimo soggetto, diverso dal Della Selva menzionato nel capoverso seguente dell’iscrizione originale. L’evento inspiegabile che coinvolse quest’ultimo, per Monaldo, risalirebbe a un’epoca coeva allo stesso Teramano, ossia attorno al 1455.
L’austero conte, inoltre, fu tra coloro i quali, già in epoca ottocentesca, pur convinti della natura sovrannaturale della traslazione della Santa Casa di Loreto, ritenevano che essa si fosse mossa dal luogo originale anni o addirittura secoli prima del 1294. Nel suo ponderoso libro, indicò tra gli indizi a sostegno di questa teoria anche i versi di Dante Alighieri su san Pier Damiani, nella Divina Commedia, al canto XXI del Paradiso: «Pietro Peccator fui anche nella Casa / Di Nostra Donna sul Lito Adriano».
Partendo dal fatto che il poeta scrisse la sua cantica al principio del Trecento e che il santo cui mise in bocca queste parole era morto nel 1072, Leopardi senior dedusse che «a giudizio di Dante, l’arrivo della Casa di Nostra Donna era già seguito nel secolo medesimo», ossia nell’anno Mille. Per il dotto Monaldo, una serie di altri spostamenti precedenti quello a Tersatto, dove secondo la tradizione, la Santa Casa avrebbe sostato per circa tre anni e mezzo (dal 10 maggio 1291 al 10 dicembre 1294), avevano preservato la dimora della Madonna dalle incursioni musulmane e da altri pericoli, fino ad arrivare all’ultima meta.
GIACOMO LEOPARDI: MARIA, LORETO E LA PREGHIERA PER LA SORELLA PAOLINA
Dai minuziosi studi e dallo zelo paterno, Giacomo eredita una forte attrazione per il santuario lauretano e le opere d’arte in esso custodite. Tanto più che l’erudito precettore scelto per lui dal conte Monaldo fu Joseph Anton Vogel, canonico onorario a Loreto. E in quel luogo, a lui così caro, il poeta porterà anche l’amico Pietro Giordani, quando, nel settembre 1818, dopo i loro primi scambi epistolari, ottenne di poterlo ospitare nella casa paterna.
Indimenticabile la scena della loro visita al santuario nel film Il giovane favoloso di Mario Martone. Proprio a Loreto nacque il legame intimo e costante con la Vergine Maria, aspetto poco conosciuto di Giacomo, cui Maria con te ha dedicato un ampio servizio (nel n. 3/2018). Il 23 novembre 1825, ventisettenne, scrisse in prosa una preghiera alla Madonna per la sorella Paolina: «A Maria. È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tante miserie».
Parole che, negli anni del liceo, toccheranno il cuore a monsignor Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione, che le elesse, in gioventù, ad antifona privilegiata durante le sue preghiere. In seguito, Giacomo scriverà due poesie dedicate a Maria, forse Mediatrice di quel riavvicinarsi alla fede nell’ultimo tratto della sua breve vita.