La goccia che fece tracimare il comunismo, quel nove novembre del 1989, fu una domanda dell’allora corrispondente dell’Ansa Riccardo Ehrman, che allora aveva 59 anni. Il responsabile delle relazioni con la stampa della DDR Gunter Schabowski aveva letto davanti a una platea di giornalisti annoiati, in diretta Tv, il solito bollettino che esaltava le ultime conquiste del socialismo reale. Ehrman, però, aveva notato una frase strana ("forse in passato abbiamo commesso qualche errore"). Così quando venne il suo turno chiese se tra questi non ci fosse anche la nuova legge sui permessi di viaggio. Schabowski rispose che non erano più necessari visto e passaporto, a quel tempo quasi impossibili da ottenere. "Da quando?", lo incalzò il giornalista italiano. "Da subito", rispose il funzionario, leggendo il foglietto del discorso.
Fu il colpo di martelletto che fece crollare il Muro di Berlino. Milioni di tedeschi dell’Est si precipitarono ai confini e davanti a quel confine di cemento per abbatterlo la sera stessa. Le due Germanie erano diventate una. La storia tracimò da Est a Ovest in un tripudio di popoli. «Quel foglietto era stato dettato dall’allora capo della DDR Honecker», ricorda Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano. «Dimostra come si sia svuotata dall’interno la volontà di resistere da parte della nomenclatura del regime. I tedeschi dell’Est capirono che erano liberi di viaggiare in Occidente, di raggiungere i fratelli separati della Germania. Era uno di quei casi in cui la storia si manifestava direttamente, la vedevamo in Tv. E quando la storia passa non è che ci si può mettere a fermarla. Il comunismo collassò e noi ne avemmo la percezione immediata».
Perché nacque il Muro di Berlino?
«Paradossalmente, per evitare la guerra. Il confronto tra i due mondi era arrivato a una situazione parossistica e in questo modo si è posto simbolicamente la premessa per farli stare da una parte e l’altra. I due mondi evitano il confronto militare e si accettano reciprocamente, nella stessa logica dell’equilibrio del terrore basato sulle armi nucleari, che evita la guerra anche se non dà la pace e permette ai due blocchi di convivere».
Il paradosso della storia è che dopo la caduta del Muro di Berlino, ne sono proliferati altri in tutto il mondo: in Palestina, in Messico, in Ungheria, al confine tra Grecia e Macedonia. Anche i porti chiusi in fondo possono essere considerati dei muri che si alzano…
«È verissimo. Ma si tratta di muri diversi. Quello di Berlino teneva dentro le persone, non voleva lasciarle uscire, era un confine fisico, ma anche ideologico, politico direi, era il mondo visto dal bunker del comunismo. Quelli di oggi sono i muri della globalizzazione, quelli che i governi alzano per non fare entrare i poveri che bussano alle porte e desiderano una vita più dignitosa. Devono difendere i privilegi dei benestanti e anche dei poveri che temono di immiserirsi ancora di più».
La fine del comunismo è avvenuta per la vittoria dei valori democratici e liberali dell’Occidente?
«La fine del comunismo non è dovuto alla vittoria delle ideologie contrapposte. Il blocco sovietico è stato disgregato dai processi della globalizzazione che hanno aumentato le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi industrializzati».
Quali sono stati questi processi?
«Dagli anni ’70, dopo il Vietnam, dopo la parità oro - dollaro e lo shock petrolifero della guerra del Kippur l’economia mondiale si è totalmente ristrutturata e ha iniziato un processo di indebolimento degli Stati e delle istituzioni. Sono le leggi dei mercati che oggi prevalgono sulla politica. La prima vittima è stata il blocco sovietico, che non è riuscito a mantenere la competitività di un sistema economico obsoleto e a reggere la forza d’urto di una dinamica molto agguerrita e spietata di un certo capitalismo selvaggio, che viene dalle grandi multinazionali, diverso dal capitalismo temperato dal Welfare».
Quale fu il ruolo dell’allora presidente americano Reagan e del segretario del Pcus Gorbaciov?
«Il confronto tra Unione Sovietica e Stati Uniti era ancora muscolare. Reagan giocò sul riarmo, sul famoso “scudo stellare”. Anche il Cremlino operò il dispiegamento dei missili sovietici nell’Europa dell’Est. La vera partita era economica. Gorbaciov si rese subito conto che il sistema sovietico stava collassando. E così agì di conseguenza: la sua perestroika fu quasi una mossa dettata dalla disperazione».
Quale è stata la funzione di papa Wojtyla nella caduta del muro? «
Wojtyla ha avuto un ruolo fondamentale, a cominciare dalla sua Polonia. La sua elezione fu subito intuita dalle autorità sovietiche come un grandissimo pericolo. Ma il suo paradossalmente è stato un ruolo frenante. Abbiamo tante testimonianze e documenti che ci dicono quante persone di Solidarnosc venissero a Roma a parlare con il Papa a dirgli che bisognava rivoltarsi, spazzare via la nomenclatura polacca, anche con l’uso della forza. Ma Giovanni Paolo II ha sempre detto di no. Era molto favorevole a Solidarnosc ma era contrario a trasformarlo in un partito, voleva che rimanesse espressione della società civile, perché la sua trasformazione sarebbe stata intollerabile per il regime e avrebbe portato a una guerra civile o alla repressione. La prima rivoluzione avrebbe dovuto avvenire nelle coscienze. I polacchi erano rassegnati. La prima cosa era alimentare la speranza, che non vuol dire prendere le armi. L’azione fondamentale di Giovanni Paolo II è stata questa. La Polonia era un tassello importantissimo del blocco sovietico. I suoi viaggi, l’ostpolitik del segretario di Stato Agostino Casaroli, la sua opera di sensibilizzazione delle coscienze, il ritorno della speranza logorarono il regime di Jaruzelski dall’interno e portarono al suo pacifico collasso».
Cosa ha voluto dire Kennedy quando pronunciò la famosa frase “io sono berlinese”?
«Io sono berlinese vuole dire che io mi assumo la vostra condizione di sofferenza, la faccio mia. Questo è il vero fondamento della democrazia: l’inclusione. Quando io mi metto nelle condizioni dell’altro non lo abbandono alla sua condizione, ma ne condivido la sorte. Era anche retorica, perché Kennedy accettava la logica della guerra fredda, ma si proiettava in un mondo in cui alla fine vince la solidarietà».
(foto in alto: Reuters)