Sopra: una bimba studia a lume di candela, causa penuria di energia elettrica. In alto: una via nel centro di Stepanakert, la capitale dell'Artsakh. Foto Reuters. In copertina, una manifestazione per le strade e le piazze di Stepanakert.
Julietta ha 70 anni, è armena e vive a Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh, il territorio conteso del Caucaso meridionale storicamente abitato da genti armene ma formalmente parte dell’Azerbaijan. La sua vita è la rappresentazione della pervicace volontà di vivere di un popolo la cui esistenza nella storia è stata marchiata da persecuzioni e conflitti. Julietta ha vissuto la guerra degli anni ’90 quando, a seguito del collasso dell’Unione Sovietica, sui monti del Karabakh dilagò la violenza tra le forze armene che chiedevano l’annessione con Yerevan e quelle azerbaigiane che invece rivendicavano l’appartenenza della regione a Baku.
Il conflitto provocò la morte di oltre 30 mila persone e alla fine vide la vittoria degli armeni che proclamarono la nascita della Repubblica dell’Artsakh, a oggi non riconosciuta da alcuno Stato al mondo. La donna ha sofferto la guerra dei 4 giorni nel 2016 e poi quella dei 44 giorni nel 2020, causata dall’aggressione da parte delle forze dell’Azerbaijan e che ha comportato 7 mila morti e 100 mila civili sfollati. Ora Julietta sta affrontando quello che verrà ricordato come il periodo dell’isolamento, perché dal 12 dicembre centinaia di attivisti azeri hanno bloccato il corridoio di Lachin, l’unica arteria che mette in comunicazione il Nagorno Karabakh con l’Armenia. Oltre 120 mila cittadini armeni che vivono nella regione del Caucaso meridionale – che prima dell’interruzione della strada importava quotidianamente 400 tonnellate di beni di prima necessità da Yerevan sono isolati dal resto del mondo: i mercati e i negozi sono vuoti, le merci mancano, le scuole sono chiuse, gli ospedali funzionano con difficoltà, i medicinali faticano ad arrivare e pure il trasferimento degli ammalati in terapia intensiva in Armenia è stato impedito: già si annovera la prima vittima a causa del blocco stradale.
«Noi armeni dell’Artsakh abbiamo un’immunità genetica ai soprusi sviluppata nei secoli». Raggiunta telefonicamente, Julietta inizia l’intervista con ironica acutezza e prosegue raccontando: «In queste ore siamo più uniti che mai, anche se la situazione è molto difficile». La donna spiega come manchino i prodotti di prima necessità, che l’arrivo dei beni alimentari dipende soltanto dalla Croce Rossa internazionale e dai peacekeeper (soldati delle forze di pace) russi e che la popolazione si è dimenticata ormai del gusto del caffè, dei vegetali, della frutta e che anche i farmaci iniziano a scarseggiare nelle corsie ospedaliere. Le sue parole trovano conferma nelle immagini che inondano la Rete e che mostrano centinaia di persone in fila ad attendere la propria razione di cibo, bambini impossibilitati ad andare a scuola e famiglie che si fanno forza tra loro unendosi la sera intorno a vecchie stufe a legna a causa delle continue interruzioni di gas.
Tatevik Agajanyan, ragazza di 31 anni, descrive come è mutata la sua vita dopo il 12 dicembre: «Tutto è cambiato. Dobbiamo fare la fila per ore per ricevere il cibo, molte persone non possono più lavorare, pianifichiamo le nostre attività quotidiane in base ai blackout perché abbiamo solo sei ore di elettricità al giorno. Ma questi disagi quotidiani, seppur problematici, si affrontano. Ciò che mi impensierisce è il futuro della mia terra, perché questa situazione non sembra trovare una soluzione ed è una nuova fase dell’aggressione contro gli armeni». Secondo stampa e Governo azero i cittadini azerbaigiani starebbero manifestando a difesa dell’ambiente e contro le attività estrattive nella regione, ma i difensori dei diritti umani dell’Armenia e dell’Artsakh rivelano invece che tra i manifestanti ci sono uomini delle forze di sicurezza di Baku e «attivisti appartenenti a organizzazioni finanziate dal Governo azero».
Human Rights Watch, Ong che si occupa della difesa dei diritti umani, invece si interroga sul perché una protesta di ambientalisti debba negare ai cittadini armeni il loro diritto alla libera circolazione e l’accesso ai servizi essenziali e ai beni primari. «Il mondo non deve dimenticarci », tuona Karen Ohanjanyan, cittadino di Stepanakert e fondatore della Ong Helsinki ’92. «L’Artsakh è divenuto un carcere a cielo aperto per gli armeni, le forze di interposizione russe non stanno facendo nulla per riaprire la strada e non sappiamo quanto potremo resistere in queste condizioni».
La Russia, a causa delle recenti tensioni con il Governo di Yerevan, ed essendo il principale fornitore di armi di Baku oltreché di gas che poi viene triangolato in Europa, aggirando così le sanzioni, mantiene un atteggiamento estraneo e traccheggiante. Il Parlamento europeo invece ha lanciato appelli per scongiurare l’imminente crisi, il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ha chiesto al presidente azero Ilham Aliyev l’immediata riapertura del corridoio di Lachin e papa Francesco ha ripetutamente espresso preoccupazione per quanto sta accadendo ai cristiani del Nagorno Karabakh. Il Governo azero però non ha mostrato alcuna volontà di porre fine all’assedio ed eloquenti sono state le parole del leader, che il 10 gennaio, in conferenza stampa, ha definito i dimostranti «il nostro orgoglio» e ha dichiarato che gli armeni del Nagorno Karabakh che non vogliono vivere sotto il Governo dell’Azerbaigian (che occupa il 154° posto nel World press freedom index) sono liberi di andarsene.
«Durante la guerra degli anni ’90 ho vissuto con i miei tre figli in un rifugio sottoterra per un anno, la tomba di mia madre a Shushi è stata profanata due volte e ora, dopo che Shushi è stata occupata dagli azeri, non so più nemmeno se esiste. Niente mi farà andare via dalla mia terra», è stata la risposta di Julietta alle parole di Aliyev. Poi la donna ha concluso dicendo: «Per il popolo dell’Artsakh i Paesi occidentali sono sempre stati simbolo di giustizia e democrazia. Abbiamo sempre cercato di costruire la nostra società ed educare i nostri figli con i valori di pace e libertà dell’Occidente. Vorrei però che oggi l’Occidente si alzasse in piedi per il Nagorno Karabakh così come sta facendo per l’Ucraina, perché anche noi armeni siamo vittime di un’aggressione».