A Nomadelfia non circola denaro, nel lavoro non ci sono “padroni” e “dipendenti”, nessuno possiede la casa che abita, i terreni che coltiva e gli strumenti che utilizza... È la comunità che provvede ai bisogni di tutti. La cellula base dell’organizzazione sociale è la famiglia, ma nessuno ne è privo perché bambini, anziani soli e adulti fragili vengono accolti nelle famiglie, indipendentemente dai vincoli di sangue. L’utopia di don Zeno Saltini, a quasi 40 anni dalla sua morte e a 70 dalla stesura della “costituzione” di Nomadelfia, è più viva che mai. Forse nemmeno il visionario prete emiliano avrebbe mai immaginato un cammino così lungo per il villaggio dove «la fraternità è legge». Anche perché il suo progetto era ambizioso: voleva fondare niente meno che «una nuova civiltà», la città dei «liberi figli di Dio», «fondata su accordi sociali che permettono di vivere il Vangelo».
Oggi sulle colline della Maremma che fanno da corona a Grosseto vivono 307 persone in un’esperienza a cavallo tra il monastero per laici, il kibbutz e la comunità Amish. «Non siamo un movimento ecclesiale. Dal punto di vista canonico siamo un’associazione privata di fedeli chierici e laici; ma noi preferiamo definirci un popolo, un piccolo popolo», spiega Francesco, il presidente, 59 anni, 13 figli tra naturali e accolti. Di cognome fa Matterazzo, ma qui tutti si presentano solo con il nome di battesimo seguito da «di Nomadelfia». «Vuol dire non fare differenze tra figli naturali e figli acquisiti», ma è anche uno dei segni distintivi per marcare la differenza con il resto del mondo. «Qui tentiamo di rivivere l’esperienza delle prime comunità cristiane, ma facciamo anche tesoro di duemila anni di cammino della Chiesa», chiarisce il presidente con il suo accento padovano ben conservato anche dopo 36 anni in Toscana. «Non possiamo cambiare il mondo dall’oggi al domani, ma possiamo cominciare cambiando i rapporti lavorativi, familiari e sociali con i nostri vicini: è questa l’idea di don Zeno».
Già, don Zeno. La sua figura è onnipresente a Nomadelfia. Le sue frasi celebri, dipinte sulle pietre lungo le strade di accesso, ci accolgono fin dall’arrivo. E le sue foto campeggiano ovunque. Ogni giorno alle 17.30 i membri di Nomadelfia partecipano alla «cultura», un’ora di formazione che naturalmente prende avvio dalle parole e dagli scritti di don Zeno. Egli è più che un fondatore, è un padre per tutti, venerato anche dalle nuove generazioni che non lo hanno conosciuto direttamente. Solo in una questione i “figli” gli hanno disobbedito: aveva lasciato detto «se per caso a qualcuno passerà per la testa di farmi santo, scendo giù dalla gloria del Bernini e lo prendo a sberle...». Invece nel 2009 è stata aperta la causa di beatificazione a livello diocesano.
Nato nel 1900 a Fossoli di Carpi, Zeno Saltini mostra precocemente la sua attitudine da “testa calda”: celebrando la prima Messa annuncia dall’altare che prenderà con sé come figlio un ragazzo di 17 anni appena uscito dal carcere. Per tutti gli anni Trenta, a San Giacomo Roncole, vicino a Mirandola, continua ad accogliere fanciulli abbandonati e fonda l’Opera Piccoli Apostoli. Nell’immediato dopoguerra i bambini senza famiglia sono centinaia, così Saltini occupa l’ex campo di concentramento di Fossoli, abbatte il filo spinato e trasforma le celle in abitazioni. Intanto dal 1941 gli si era affiancata Irene Bertoni, per tutti “mamma Irene”, una ragazza di 18 anni che, con l’approvazione del vescovo, diventa, insieme ad altre compagne, «mamma di vocazione», cioè vergine consacrata, madre di figli che non ha partorito. A Fossoli arrivano anche le prime coppie di sposi disposte, pure loro, ad accogliere bambini abbandonati e nel 1948 nasce Nomadelfia.
Don Zeno è convinto che la politica sia il principale strumento per creare una società più giusta attraverso nuovi rapporti economici, ma ha continui scontri con la Dc che considera troppo tiepida nel declinare i valori del Vangelo, tanto che alle elezioni del 1951 indica ai suoi di annullare la scheda. È solo l’ultimo degli episodi che a Roma – sull’una e sull’altra sponda del Tevere – fanno guardare al sacerdote come un pericoloso sovversivo. Il che non lo aiuta quando il progetto di Nomadelfia, arrivato a ospitare 1.150 persone, delle quali 800 figli accolti, diventa economicamente insostenibile: il fondatore subisce un processo per insolvenza (da cui esce assolto), ma il 5 febbraio 1952 il Sant’Uffizio gli impone di lasciare la comunità e il ministro dell’Interno Scelba manda le forze dell’ordine a sgomberare Fossoli. Allora 400 superstiti si rifugiano a Grosseto in una tenuta donata da Maria Giovanna Albertoni Pirelli grazie all’intermediazione di padre David Maria Turoldo: è la seconda fondazione di Nomadelfia. Per seguire i suoi figli, don Zeno ottiene da Pio XII la riduzione allo stato laicale. Sono anni durissimi: nei campi c’è più roccia che terra, mancano acqua e luce, si può alloggiare in un solo casale e quasi tutte le famiglie devono dormire sotto le tende. Ma lentamente la vita riparte, i conti tornano in ordine e nel 1962 don Zeno ottiene da Giovanni XXIII la riammissione al sacerdozio. Enzo Biagi diceva che l’Italia del Novecento ha avuto solo tre veri rivoluzionari: don Milani, don Mazzolari e don Saltini.
Probabilmente aveva ragione. Il massimo “riconoscimento” ecclesiale arriva nel 1980, l’anno prima della morte del fondatore, con l’incontro a Castel Gandolfo tra i “nomadelfi” e Giovanni Paolo II, cui seguì nel 1989 la visita di Wojtyla a Grosseto.
Ora è la volta di papa Francesco: il prossimo 10 maggio andrà a Nomadelfia (e poi a Loppiano, la cittadella dei Focolari nei pressi di Firenze) e troverà la comunità dei “figli” di don Zeno nel pieno di un vivace periodo di rinnovamento generazionale che prosegue da un quindicennio. Oggi sono ben 20, un numero mai raggiunto nella storia di Nomadelfia, i giovani «postulanti» nel triennio di preparazione all’ammissione tra gli «effettivi» della comunità, che attualmente sono un centinaio cui si aggiungono i 90 minori (dei quali una ventina in affido). Infine, gli altri adulti: persone fragili “accolte”, che vivono stabilmente con le famiglie. I numeri parlano chiaro: Nomadelfia è giovane. «Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a una tendenza nuova», spiega il presidente Matterazzo, «ci sono più giovani esterni che chiedono di entrare e molto più spesso anche i figli nati qui decidono di rimanere una volta diventati grandi». Infatti alla cittadella della fraternità «non si appartiene per nascita ma per scelta» e quindi i figli, una volta terminati gli studi e raggiunta l’autonomia, devono decidere se diventare effettivi oppure uscire. «Fino al recente passato la decisione doveva avvenire già dopo la scuola superiore. Oggi invece viene data la possibilità di allontanarsi per qualche anno per svolgere gli studi universitari oppure fare esperienze in terre di missione, l’Erasmus o il Servizio civile volontario. «Esperienze che in molti fanno poi maturare la scelta del rientro, come è avvenuto nel mio caso», spiega Giovanni, 32 anni, il portavoce della comunità, che è stato tra i primi figli di Nomadelfia a compiere gli studi all’esterno, Scienze politiche a Firenze.