Nella sua collezione di attimi quei tre gol al Brasile, il 5 luglio 1982, non avrebbero mai avuto eguali. Niente nella vita gli avrebbe più dato un brivido così. Lo raccontava una volta in cui parlavamo di com’è diventare un’icona intrappolati in una foto che ti ferma a 25 anni mentre la vita va avanti, in una specie di ritratto di Dorian Gray al contrario. E insieme ammetteva di averlo avvertito subito, alzando la testa e vedendo lo stadio impazzire di bandiere tricolori che un attimo così non sarebbe tornato più. Sarebbe durato un istante ma non l’avrebbe cambiato con tutti i palloni d’oro del mondo. Anche se forse è stato proprio quell’attimo a regalargliene uno. Con onestà intellettuale riconosceva che era anche comodo nella vita essere stato quel Paolo Rossi lì, riconoscersi nel paradosso di vedersi aprire tutte le porte al solo pronunciare quello che, altrimenti, in Italia sarebbe stata la più ordinaria delle combinazioni nome-cognome. Eppure diceva di non essersi sentito prigioniero in quella foto, che l’aveva reso un simbolo del nostro tempo, perché non era rimasto calciatore dentro. Dal campo era uscito davvero, anche se poi la gente per strada lo riportava sempre lì, compreso quel tassista brasiliano che tanti anni dopo, riconoscendolo, lo mise a terra rifiutando la corsa a quello che per lui era rimasto il “carrasco”, il boia del Brasile.
Perché se è vero che quei sei gol al Mondiale di Spagna non esauriscono il Paolo Rossi calciatore che, partito da Vicenza, ha vinto tanto anche altrove, soprattutto con la Juventus del Trap, quella in cui si suggeriva a un giovane calciatore di sposarsi per mettere la testa e i bollenti spiriti a partito, è ancor più vero che Paolo Rossi alla storia è passato, e nella storia resterà, come “Pablito”, Paolino in versione castigliana, allusione al corpo esile di fil di ferro (ma ginocchia di cristallo) e al viso affilato che il tempo non aveva cambiato. C’era un riscatto personale nei sei gol (da capocannoniere del Mundial) che trasformarono una potenziale scarica di ortaggi in una marcia trionfale, grazie all’ostinazione del "vecio" Bearzot che aveva voluto Paolo Rossi punta di diamante contro tutti, anche dopo che era diventato la copertina grigia del calcio scommesse, scotto che tocca pagare al più famoso, non sempre necessariamente il più colpevole (vulgata vuole che quando gli parlarono di pareggiare un Avellino-Perugia, in cui poi segnò doppietta, pensò a un “biscotto” che non trovò l’accordo, non anche ad altro, di cui non sapeva. Di sicuro per come è andata a finire non avrebbe avuto bisogno né dei pochi soldi, maledetti, che sarebbero girati, né della macchia sulla carriera).
In quei sei gol però c’era di più: anche il riscatto di una Nazione attraverso il riscatto di una squadra che aveva contro tutto l’universo, a cominciare dalla stampa di casa, che quanto a congiunzioni astrali sfavorevoli quando vuole non ha rivali, tanto che l’Italia decise un inedito silenzio stampa: parlava solo Dino Zoff, la chioccia, non il più parco di parole come dicono, ma il più abituato a misurarle. Non per caso anni dopo quando si trattò di rendere l’idea di com’era stato in quei giorni e di com’era in generale Paolo Rossi sul campo lo descrisse così: «Quando si dice che Paolo Rossi è arrivato sulla palla nello stesso momento di qualcun altro, be’ si sta usando un modo di dire, perché Paolo Rossi arrivava sempre prima». A testa alta, veloce come un furetto, in mezzo alle gambe dei difensori più grandi di lui e a volte, inspiegabilmente per il fisico e pure per la fisica, anche sopra le loro teste. Se ne stupiva anche lui rivedendosi: «Mi guardo e mi dico: ma davvero correvo così, davvero facevo quelle cose lì?».
Se n’è andato in punta di piedi, portato via da una malattia vissuta con discrezione, lo stesso garbo che l’aveva mantenuto anche a 64 anni ragazzo gentile, a suo agio in telecronaca come nell’agriturismo in Toscana, dove aveva costruito il futuro lasciandosi alle spalle l’icona.