Ripeterlo subito, in apertura, è quantomai necessario dopo l’ennesimo femminicidio (tentato): la vittima di violenza di genere non è mai colpevole. Nelle aggressioni di genere e nei femminicidi non esiste nessun «E tu cosa gli hai detto prima»? O «Come eri vestita»? Oppure «Quindi lo hai lasciato tu». Questo è infierire una seconda volta su chi è già una vittima. E si chiama vittimizzazione secondaria.
Questo vale anche per la giovane 24enne di Giussano (Monza) che, non più tardi di un anno fa, era stata sfregiata con dell’acido muriatico dal suo ex compagno, un 25enne, arrestato successivamente per tentato femminicidio. Lei lo aveva lasciato. Lui ieri, mentre si trovava agli arresti domiciliari è evaso indisturbato, l’ha rintracciata, pedinata e ferita alla schiena nel parcheggio esterno di un centro commerciale a Giussano con una serie di coltellate, prima di scappare. «Sono stata aggredita, il mio ex mi ha accoltellata». La chiamata al 112 arriva alle 13,30 di lunedì dalla stessa donna di 24 anni, abbastanza lucida, non solo per chiedere aiuto ma anche per fornire gli elementi decisivi per arrivare subito al responsabile: «È stato lui. È successo ancora», ha detto insanguinata ai carabinieri della compagnia di Seregno intervenuti sul posto.
Com’è stato possibile? Che ne è di Codice rosso, la norma per le vittime di violenza di genere del 2019, e che il 25 novembre dell’anno scorso è stato rafforzato con nuove disposizioni? «Funziona e mette in azione subito carabinieri e polizia che hanno l’obbligo di avvisare subito la procura, basta anche una telefonata», spiega Rosalba Taddeini, responsabile per Differenza Donna dell’Osservatorio Nazionale sulla Violenza contro le Donne con disabilità. Solo tra gennaio e ottobre di quest’anno le forze dell’ordine hanno arrestato per maltrattamenti, stalking e violenza sessuale 151 persone: il triplo dell’anno scorso.
Eppure succedono casi come quello di Giussano, perché?
«Perché se sulla carta le leggi sono scritte bene all’atto pratico mancano strumenti funzionanti, come i braccialetti elettronici e formazione per chi riceve la denuncia che troppo spesso giudica la donna che è già vittima. E la vittimizzata doppiamente», aggiunge Taddeini, che con Osservatorio Nazionale sulla Violenza contro le donne con disabilità nota che «questo accade ancora più spesso quando la donna ha una qualche forma di disabilità fisica o psicologica e dipende ancora di più da un uomo violento».
Eppure qualcosa si muove: infatti dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, sono raddoppiate le richieste d'aiuto al 1522, helpline per intercettare violenza e stalking, un servizio pubblico telefonico ma anche un’app promossa dalla presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le Pari Opportunità e gestita da Differenza Donna: dalle 200 telefonate quotidiane, prima del femminicidio di Giulia Cecchettin, si è arrivati alle 400 con picchi tra 450 e 500 se si considerano anche i contatti fatte con chat ed App. «Oltre alle adolescenti, sono aumentate le richieste da parte dei genitori, in particolare dalle mamme, preoccupati per le figlie. Chiamano tante amiche o madri, in pensiero per le frequentazioni delle amiche o delle figlie. Ma l’aspetto che più ci ha sorprese è che ci sono sempre più figlie che chiedono aiuto per incoraggiare le madri ad affrancarsi da relazioni violente dal punto di vista fisico, psicologico o economico», spiega Rosalba Taddeini.
Per salvarsi o per uscire da situazioni di violenza, chiamare il 1522 è uno dei più efficaci strumenti a disposizione delle donne. Il numero è infatti attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7 ed è accessibile dall'intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile. «L’accoglienza», spiega Taddeini «è anonima e disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, farsi, albanese, russo ucraino, portoghese, polacco. Ventisei lingue, ma anche in comunicazione aumentata per donne con disabilità. Dopo avere fatto un'analisi dei bisogni attraverso una serie di domande, come per esempio “cosa ti succede”, “chi è l'autore della violenza”, “hai già chiesto aiuto”, “sei mai stata in ospedale”, “sei in carico a qualche servizio”, “hai già chiesto aiuto alle forze dell'ordine”, fornisce alla donna il riferimento più vicino per risolvere la sua situazione e quasi sempre è un centro antiviolenza. Accade anche che le donne ci chiamino mentre stanno subendo un'aggressione, quindi in emergenza. In quel caso le operatici della chat o del centralino possono fare da ponte con le forze dell'ordine, se loro ci autorizzano e mentre aspettiamo l'intervento degli agenti, restiamo al telefono con la vittima, cerchiamo di assisterla a distanza, non la lasciamo sola. Le donne non chiedono aiuto perché culturalmente ci hanno insegnato che se subiamo violenza abbiamo combinato qualcosa, stiamo mettendo in atto qualche comportamento che provoca questa reazione. Nei centri anti violenza l'obiettivo è leggere insieme da un punto di vista sociale e culturale la violenza, così da maturare la consapevolezza che non è un problema delle donne ma che è culturalmente un problema degli uomini che agiscono violenza per esercitare un potere che da secoli e millenni hanno esercitato».
Differenza Donna, nel caso occorra un centro antiviolenza, studia un percorso per uscire dalla propria specifica situazione. «Nei casi gravi, dove c'è bisogno di allontanarsi anche da casa per motivi di sicurezza, il centro antiviolenza fa una messa in rete con le case rifugio mappate sul territorio. Per molte donne la paura è data anche dal non sapere dove andare dopo avere denunciato. L'idea è quella di creare una rete intorno alla donna vittima di violenza affinché non si senta più sola, perché ciò che permette alla violenza di continuare ad esserci è la percezione di solitudine. Dobbiamo rompere questo isolamento a aiutare le donne, ma anche gli uomini e l’intera società, a realizzare che chi subisce violenza non fa nulla per provocarla». Ripetiamolo quindi, anche in conclusione: la vittima di violenza di genere, o di femminicidio, non è mai colpevole.