Ennesima rivolta in uno dei Cie (Centri d’identificazione ed espulsione) d’Italia. A Ponte Galeria, in provincia di Roma, alcuni immigrati nigeriani sono saliti sul tetto inscenando una protesta contro un decreto d'espulsione mentre altri, all’interno, hanno dato fuoco a materassi, lenzuola, coperte e vestiti. L’incendio è stato spento dopo tre ore dai vigili del fuoco. Sono intervenuti anche i carabinieri e la polizia. La situazione è ritornata “normale”, ammesso che si possa parlare di normalità per questi centri contestati per le condizioni umane degradanti di chi è “ospitato”.
Le proteste e gli appelli finora sono stati vani. Come conferma una delle suore che settimanalmente si reca nel centro di Ponte Galeria, suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata: «Noi andiamo ogni sabato, da dieci anni, nel reparto femminile, meno numeroso di quello maschile».
Qual è la situazione?
«Sabato abbiamo visitato una quarantina di ragazze, un gruppo limitato rispetto al passato, quando le presenze arrivavano anche a 180 donne. Ora non ci sono fondi e anche le presenze sono inevitabilmente diminuite. Per gli uomini è diverso perché sono di più e quindi sono più difficili da gestire».
Cosa fate, ogni sabato?
«Io mi occupo delle nigeriane, una ventina. Sabato abbiamo pregato per l’inizio della Quaresima; loro ci tengono molto a questi momenti di preghiera. La nostra è una presenza con suore di diverse congregazioni e diverse nazionalità. Diamo la possibilità di un incontro, un ascolto e un’accoglienza. Adesso stiamo cercando di mettere in atto anche dei rimpatri assistiti. Offriamo l’opportunità di tornare a casa in modo più decente. Interveniamo proponendo di accompagnare almeno per un anno queste donne, con un progetto finalizzato a reintegrarsi nel Paese d’origine. Abbiamo due case d’accoglienza a Benin City e a Lagos. Con la Caritas italiana, e finanziate anche dalla Cei, stiamo iniziando questo progetto. Abbiamo anche fondato un’associazione, Mai più schiave, per aiutare queste giovani che non solo non riescono a inserirsi nel nostro mercato di lavoro e nella nostra società ma vengono sfruttate nel peggiore dei modi. C’è anche un finanziamento della Cei attraverso l’8 per mille. Per loro è una grande umiliazione tornare a casa. Sono venute con un progetto di migrazione che non si è realizzato».
Avete già riportato a casa qualcuna di queste donne?
«Stiamo iniziando adesso, perché l’associazione è nata alla fine dell’anno scorso. Appena avremo concluso la parte burocratica ci metteremo in azione. Aspettiamo l’ultima approvazione della regione Lazio per agire legalmente come associazione, anche per i passaggi finanziari: mandiamo i soldi in Nigeria per la reintegrazione, con la Conferenza delle religiose nigeriane. Inoltre, due organizzazioni ogni settimana entrano a Ponte Galeria per supportare legalmente queste persone e noi favoriamo il contatto con queste organizzazioni».
La situazione dei Cie è tra le più degradanti, come afferma suor Eugenia: «O diamo un’assistenza che valga la spesa o non riusciremo più a gestire i Cie. Questi poveretti sono lì tutti i giorni senza fare alcunché. Non ci sono progetti. Le persone sono parcheggiate nel nulla. Non si sa cosa possa capitare il giorno dopo. Una volta li mettevano lì per soli 30 giorni, poi si è passati a 60. Poi sei mesi, ora 18 mesi. Ma è assurdo, meglio chiuderli. Ultimamente c’è stata un’ispezione dall’Onu. Lo abbiamo detto in tutti i modi: così come sono i Cie non hanno ragione d’essere. Una persona deve essere trattata da persona. Ragazzi di vent’anni che stanno solo a letto, perché non possono fare altro. Così non è degno di un Paese civile; questi non devono essere luoghi di sofferenza. Cerchiamo di renderli luoghi umani».
Nel reparto maschile va, una volta alla settimana, padre Giovanni, del Centro Astalli, il centro dei Gesuiti che si interessa degli immigrati. «La situazione è la stessa da anni. Non ci si può meravigliare se le persone danno luogo a manifestazioni di vario tipo o tentano di scappare. Nessuno vuole trovare una soluzione a una realtà che è indegna. Bisogna superare l’idea dei Cie. È un problema trasversale, perché ha attraversato tutti i governi e quello prossimo venturo non credo che troverà una soluzione perché il problema non è in agenda. Se vogliamo uscire da questa crisi culturale e umana dobbiamo mettere all’ordine del giorno la chiusura dei Cie».
Tuttavia, voi ci andate settimanalmente…
«Certo. Non condividiamo i Cie ma finché ci sono andiamo a servire le persone. Noi del centro Astalli siamo la parte italiana del Jrs, Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, che a livello internazionale afferma che i centri di detenzione non hanno motivo di essere».
Quanti immigrarti ci sono a Ponte Galeria?
«Poco meno di 150. La struttura è criticabilissima e le condizioni delle persone pessime. La dignità è dimenticata. C’era il sottosegretario Ruperto che voleva “migliorare” i Cie. Che significa? Mettere qualche televisore o qualche condizionatore in più? E questo basterebbe, forse? Se vogliamo superare la situazione dobbiamo mettere al bando i Cie perché hanno dimostrato di essere una realtà indegna. Guardiamo, piuttosto, alle persone e non alla struttura. E poi, bisognerebbe avere il coraggio di dire quanto stanno costando questi centri. Pensi a quante persone ci lavorano, costi che ricadono sulla comunità e sulle persone. L’episodio di oggi è una logica conseguenza, come è avvenuto in passato e come avverrà in futuro se non si cambia la situazione. Qualcuno è interessato a governare per la dignità delle persone? Questa è la prima domanda che dobbiamo porci».