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"Ero lì, in mezzo all'orrore, salvo per miracolo, da 50 anni non mi do pace"

12/12/2019  Guido Cei è uno dei sopravvissuti alla strage: "Vidi un lampo, poi una fiammata, pensammo allo scoppio della caldaia. Mi ritrovai coperto di sangue"

 

Venerdì 12 dicembre 1969 alle 16.37, Guido Cei, che allora aveva 30 anni, si trovava all’interno della Banca Nazionale della Agricoltura, filiale di Piazza Fontana. Lavorava all’ufficio Cambi valuta estero. Era solo quel giorno, alcuni suoi colleghi erano usciti alcuni a casa malati. Il clima natalizio, l’apertura pomeridiana favoriva molti agricoltori e commercianti ai quali la banca offriva servizi per assolvere agli ultimi adempimenti prima del Natale. Clima di festa e attesa. Ma anche tensione e paura come quella che si respirava in ogni angolo della città, dopo la ventata sessantottina e l’autunno caldo.

Cosa ricorda signor Guido Cei?

Io sono stato fortunato perché avrei potuto esserci anche tra le diciassette vittime. A distanza di cinquant’anni non riesco a capire e darmi pace perché quella bomba e chi la messa poi. Quel giorno ero al lavoro. Il mio ufficio non era nel salone della banca, ero nell’ammezzato che era stato ricavato nel cortile del palazzo, un immobile attaccato al resto dell’edificio. Una vetrata rotonda e lunga con vetri smerigliati che guardava sul salone dove è stata collocata la bomba. Era un venerdì e aspettavo di uscire come tutti alle 16.30- 16.45, con una certa euforia, perché si prospettava un bel fine settimana di preparazione al Natale. Mi trovavo vicino al mio tavolo e dall’altra parte sul muro c’era l’orologio che avrebbe fissato il tempo alle 16,37. C’è stata una fiammata come un lampo. Nessuno ha pensato ad una bomba. Abbiamo pensato che fosse scoppiato l’impianto di riscaldamento. Sembrava una cosa modesta al primo istante da dove eravamo noi. Ma sotto nel salone era tutta un'altra storia. Io non mi sono accorto di nulla ma chi mi ha visto mi ha chiesto “cosa hai fatto, sei pieno di sangue dalla testa ai piedi”. Ero in piedi e sono stato investito dall’onda d’urto dei vetri in frantumi della grande vetrata e di tutti le finestre e hanno colpito coloro che si trovavano nel nostro ufficio. L’esplosione dell’ordigno si è riversata come un fulmine dall’alto al basso”. Un inferno di cristallo che ha portato morte e paura nella Milano prenatalizia.

Dopo l’esplosone: confusione, urla, sangue quando arrivarono i  soccorsi?

Mi ricordo che mi hanno portato giù dallo scalone. C’era una confusione totale. Volevo guardare nel salone ma non me l’hanno permesso. Sono stato portato via con una Giulia della Polizia, quasi tutti i feriti sono stati portati via con auto private e delle forze dell’ordine prima ancora prima arrivassero le ambulanze. Tutta la zona fu messa sotto sequestro. C’era un trambusto generale, urla, sangue. I morti nel salone non li ho visti, molti erano colleghi che conoscevo bene periti insieme ai clienti. Tutte vittime innocenti che si trovavano in quel posto nel momento sbagliato. In ospedale mi hanno curato e sono successivamente tornato per farmi togliere una piccola scheggia di vetro che mi era entrata in un occhio. Naturalmente in quei momenti pensavo alla famiglia alle notizie che radio e televisione trasmettevano. Non esistevano telefoni mobili e decine di persone erano in apprensione.

In quale clima viveva la città e cosa ha pensato dopo la bomba di Piazza Fontana?

Era un periodo turbolento, ma nessuno  pensava alle bombe. Quella della Banca dell’Agricoltura è stato l’inizio di un periodo buio per il nostro Paese. Io sono originario di Silvana Pietra, in provincia di Pavia e allora abitavo a Milano, lavoravo di giorno e di sera studiavo per conseguire la laurea in Economia e Commercio all’Università Cattolica di Milano. Avevo una vita piena, con due figli piccoli. I miei problemi erano altri ma avvertivo come tutti il clima era pesante, scioperi, cortei, manifestazione, conflitti, un clima di violenza stava prendendo il sopravvento. Quelli che hanno messo la bomba volevano qualcosa di eclatante e ci sono riusciti. Ma i morti, le vittime innocenti io penso sempre a loro. Non c’entravano assolutamente nulla. Anche in Banca l’agitazione fu per molto tempo altissima. E il dolore ci ha accompagnato per tanto tempo.

Quando è tornato al lavoro e che cosa ha pensato dopo quella tragedia?

Io sono tornato dopo una quindicina di giorni, ma la Banca dell’Agricoltura lunedì era già aperta, almeno parzialmente. L’attività non si è mai fermata. Al sabato era già a sistemare le cose e provare a tornare a dare un servizio al pubblico subito. Era la risposta al terrore. Per tanto tempo non mi sono ripreso. Ho continuato a domandarmi perché? Sono stato a Roma e Catanzaro ai processi per deporre ma poi ho cercato di dimenticare ho cercato di metterci una pietra sopra. Allora avevo 30 anni oggi ne ho compiuti 80. Solo ora ne parlo dopo tanti anni. Fino al 1971 ho lavorato in Piazza Fontana poi sono stato trasferito in un’altra agenzia, poi a Torino. Sono tornato a Milano, ho sofferto il periodo difficile dell’Italia degli anni Settanta, subendo due rapine nella mia filiale, ma nel salone della Banca di Piazza Fontana non ho voluto ritornare. Si cercava di sopravvivere e non si aveva la sensazione di quando tutto sarebbe finito. In ogni caso solo recentemente per una trasmissione televisiva con una scuola di Voghera sono tornato in Piazza Fontana. Dopo trent’anni un’emozione forte.

Cinquant’anni dopo cosa resta di quella strage?

Con la violenza non si raggiunge nessun risultato, ma la lezione della storia non raggiunge tutti gli uomini. Però il mondo non è composto solo da gente tranquilla, esiste una parte che non comprende come questi atti seminino solo morte e disperazione. Il 12 dicembre è stato un incipit di una stagione nera per il nostro Paese, superata grazie al DNA democratico. Ma tutto è sempre in bilico.

 

 

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La posa delle formelle per i 50 anni dalla strage di Piazza Fontana
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