Le immagini e le testimonianze che giungono da Kabul danno una conferma. Si può essere nella carriera diplomatica, ad alto livello, e non lasciare il cuore chiuso in un ufficio di rappresentanza. L'impegno concreto di Tommaso Claudi, tra qualche giorno 31 anni, originario di Camerino nelle Marche, ricorda quello di Luca Attanasio, ambasciatore d'Italia nella Repubblica Democratica del Congo, tragicamente concluso il 22 febbraio di quest'anno. Allora come oggi esce dagli stereotipi protocollari il ruolo del professionista dello Stato in terra straniera, che mette in gioco la sua vita non solo per gli interessi italiani, ma per l'amore ad un popolo che vede soffrire.
Le braccia di Tommaso tese per accogliere un bimbo afgano e cercare di metterlo al sicuro sono il segno di quella parte buona del nostro paese che affronta le emergenze in prima persona. Non l'incoscienza ma la piena conoscenza della realtà che ti circonda può portare alla naturalezza di questi gesti. Un missionario è sempre un po' un diplomatico, come accade per l'unico prete cattolico rimasto a Kabul, il padre barnabita Giovanni Scalese, 66 anni. Talvolta vale anche l'inverso e un diplomatico è fino in fondo missionario, come amava dire Luca, quando tornava nella sua parrocchia di Limbiate (Milano). Il giovane ambasciatore italiano a Kinshasa andava nelle strade sterrate della periferia della capitale per raggiungere i congolesi più poveri. Il console Claudi, laurea in linguistica a Pavia e in relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, con un incarico nella segreteria commerciale dell'ambasciata italiana dal 2019 a Kabul, vive in prima persona la situazione afgana: «Stiamo assistendo ad una grandissima tragedia umanitaria e tutti noi stiamo dando il massimo mettendoci tutto il cuore e la professionalità di cui siamo capaci», sono le sue parole che non lasciano dubbi. Un lavoro che, come per Luca Attanasio, non si ferma ai rigidi confini di un ufficio diplomatico. Con la trepidazione che tutto per Tommaso si risolva felicemente.