Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia di Giovanni Grasso, Edizioni San Paolo.
È la mattina del 6 gennaio 1980, domenica. Scrosci di
pioggia fredda intervallati da fastidiose raffiche di vento
battono la città di Palermo. A casa Mattarella, al secondo
piano di via della Libertà 147, il papà, Piersanti, presidente
della Regione Sicilia, ha appena chiuso una lunga conversazione
telefonica con Corrado Belci, dirigente nazionale
della Dc. Guarda l’orologio. Manca una manciata di minuti
all’inizio della messa delle 12.30. Sollecita amorevolmente
la moglie e i due figli, Maria e Bernardo: «Forza, è ora di
andare. Non facciamo tardi oggi che è l’Epifania».
La moglie del presidente, la signora Irma Chiazzese, non
si sente un granché. Un leggero malore che ha finito per rallentare
tutta la famiglia. Il piccolo gruppo termina in fretta
i preparativi e finalmente si mette in moto. In genere i Mattarella
frequentano la parrocchia di Santa Lucia, a un passo
dall’Ucciardone, ma sono invitati a pranzo da amici che abitano
in un’altra zona. E così il programma è cambiato. La
meta è la chiesa di Francesco di Paola, a circa due chilometri
da casa.
Quella domenica il presidente, dimissionario dopo una
crisi di governo regionale, è senza scorta. Il delicato incarico
che ricopre in Sicilia lo espone a pressioni e minacce di ogni tipo e l’anno che si è appena chiuso ha fatto contare,
nella sola Palermo, più di cinquanta omicidi di mafia. In
questa lista sterminata di morti ammazzati non ci sono solo
picciotti appartenenti a bande rivali. Cosa Nostra ha
puntato le armi in alto: contro il giornalista Mario Francese,
indagatore coraggioso dei misteri mafiosi, contro il giudice
Cesare Terranova, ex deputato della Sinistra Indipendente,
ucciso insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso,
contro il capo della squadra mobile Boris Giuliano,
energico ed efficace investigatore. Ma tra i morti eccellenti
di Palermo del 1979 c’è anche il segretario provinciale
della Dc, Michele Reina, andreottiano e sostenitore dell’apertura
a sinistra. Il primo politico di rilievo assassinato
dalla mafia.
Una mafia che in quello stesso anno lascia sanguinose
impronte anche lontano dalla Sicilia, in un oscuro intreccio
con poteri occulti, servizi deviati, bande criminali e uomini
d’affari. Basta pensare all’omicidio di Giorgio Ambrosoli,
l’integerrimo liquidatore della Banca Privata Italiana, un
istituto bancario sotto il controllo di Michele Sindona, personaggio
a cavallo tra Cosa Nostra e ambienti italiani e stranieri
della politica, della finanza e della massoneria. O
all’uccisione di Mino Pecorelli, il discusso giornalista depositario
di torbidi segreti sulle trame dei potenti italiani.
Inoltre, in tutto il Paese gli uomini delle istituzioni sono a
rischio, potenziali obbiettivi del terrorismo politico, rosso o
nero, che ha già sperimentato sul campo tutta la sua micidiale
capacità operativa.
Mattarella queste cose le sa. Ha vissuto sulla sua pelle,
con trepidazione e dolore, il rapimento e l’assassinio del suo
maestro e amico, Aldo Moro. Ha partecipato ai funerali di
Boris Giuliano e del giudice Terranova, due servitori dello
Stato che la mafia la conoscevano e la combattevano sul serio; è toccato a lui commemorare, in piazza e all’Assemblea
Siciliana, il collega di partito Michele Reina. Ma, nonostante
tutto, nei giorni di festa ha l’abitudine di congedare gli
agenti assegnatigli per la protezione. «Hanno diritto anche
loro», spiega, «di passare le festività con la famiglia». Anche
se agli amici più intimi ha confidato: «Se vogliono ammazzarmi,
lo fanno egualmente»
Il killer e i complici, che hanno seguito per settimane i
suoi spostamenti, annotando abitudini, orari e percorsi, sanno
che quella domenica Mattarella sarà senza scorta. Sanno
anche che per loro sarà maledettamente più facile ammazzare
un uomo pubblico, simbolo del rinnovamento politico
siciliano, quando si troverà – totalmente indifeso – in un
momento del tutto privato, intimo, familiare. La persona che
si parerà loro davanti quando sarà ora di premere il grilletto
non sarà un politico o un esponente delle istituzioni, ma un
marito e un padre affettuoso che, come tanti altri, esce di
casa nell’ultimo giorno delle vacanze natalizie per andare a
messa insieme alla famiglia. E che cosa importa se Piersanti
ha solo quarantaquattro anni, la moglie quarantadue, il figlio
Bernardo appena venti e se l’adorata secondogenita
Maria ha da pochi giorni festeggiato il diciottesimo compleanno,
a casa, con amici e parenti, ballando fiera con il suo
papà? Che peso può avere nelle logiche di un’organizzazione
criminale il fatto che i Mattarella sono una famiglia unita
e felice, con tanta voglia di continuare a esserlo? Non
conta nulla – o meno di nulla – se Irma e Piersanti si amano
come il primo giorno in cui si sono incontrati, se sognano
di invecchiare insieme, se vogliono godersi ancora per lunghi
anni la tenerezza reciproca, l’affetto dei figli e i futuri
nipotini.
Questi sono pensieri che non possono e non devono sfiorare
la mente di un criminale. Il killer deve rimuovere dalla sua coscienza e dal suo cuore ogni traccia, anche minima,
di umanità. «Era proprio un robot, che sparava come se sparasse
a una pietra o a una sedia», testimoniò la vedova Mattarella
in tribunale. Robot, ossia, etimologicamente, macchina
che svolge lavori “pesanti” al posto dell’uomo.
La famiglia Mattarella si avvia verso il garage, a pochi
metri dal portone di casa. Mancano ormai pochi minuti all’una
e il gruppo si divide: Piersanti e il figlio scendono in garage
per la piccola rampa. La moglie del presidente, la figlia
e la suocera attendono sul marciapiede accanto al cancello,
chiacchierando. È lì che gli occhi di Irma incrociano quelli
di un giovane poco più che ventenne, un po’ tarchiato, con
un giubbotto celeste e il cappuccio calato sulla testa, che le
si para davanti con una strana andatura, quasi a balzi, per
poi infilarsi nel cortile del bar attiguo. Quel viso un po’ tondo,
dalla carnagione chiara e le gote arrossate, le si stampa
per sempre nella mente. «Aveva occhi di ghiaccio», ricorderà
in più occasioni. Così come le rimarrà impressa una
smorfia, un ghigno, non si capisce se di sforzo, di tensione
o di giubilo, che appare sul volto del killer appena compiuta
la sua missione di morte.
Piersanti si mette alla guida della sua 132 blu. Bernardo
non sale. Rimane di sotto per chiudere la porta del box. Prima
di scendere ha notato distrattamente, a pochi metri dal
cancello, una 127 bianca in sosta sul marciapiede con due
uomini a bordo.
Lo spazio di manovra all’interno del garage è piuttosto
esiguo. L’automobile percorre la rampa a marcia indietro.
Poi si arresta sul passo carrabile per far salire la famiglia.
Irma si sistema davanti, accanto al marito. Maria e la nonna
dietro. Sono pochi attimi, lo spazio di un paio di respiri prima
dell’orrore e della tragedia.
Maria sta parlottando con la nonna. Sente un gran botto, si gira di scatto e vede i cristalli del finestrino anteriore andare
in frantumi: «C’era la canna nera di una pistola diretta
contro papà, sparava. Lui si è reclinato sulle gambe di mamma…
Il killer ha fatto il giro della macchina e ha continuato
a sparare dall’altra parte».
Da un’altra prospettiva, dal fondo della rampa, Bernardo
scorge un giovane con un giubbotto celeste che si accosta
al finestrino del padre, si china leggermente, prova con forza
ad aprire lo sportello senza riuscirci. Allora tira fuori un
revolver, una micidiale calibro 38, e fa fuoco. Bernardo ricorda
una sequenza imprecisata di colpi e un grido soffocato
del padre. Paralizzato dall’orrore, riesce a seguire con gli
occhi il sicario che si avvicina alla 127 scambiando parole
e gesti concitati con il complice. L’uomo in macchina consegna
qualcosa nelle mani del killer. Le indagini stabiliranno
che la prima pistola si è inceppata e che il giovane con il
giubbotto celeste se n’è fatta dare una seconda.
Il sicario fa un rapido dietrofront. Si accosta di nuovo alla
macchina del presidente della Regione, stavolta dal lato
dove siede Irma. Ha come un attimo di esitazione quando
vede la moglie che cerca disperatamente di fare scudo con
le mani al marito, ma l’ordine ricevuto è tassativo: Mattarella
deve morire. Il killer si sposta, prende la mira dal finestrino
posteriore e spara ancora.
Racconta la moglie alla polizia subito dopo l’omicidio:
«Non so come sia successo. Ma lui [il killer, nda] se n’è andato.
L’ho seguito con gli occhi, mi è sembrato che fosse
quasi entrato in macchina. Stringevo Piersanti e guardavo
quell’auto sperando che il Signore li facesse andare via. E
invece no: il complice, quello alla guida, ha fatto dei gestacci,
proprio come se gridasse all’assassino di tornare a sparare.
E lui è venuto di nuovo verso di noi. I suoi occhi fissi
sui miei, ha sparato l’ultimo colpo».
Irma è rimasta leggermente ferita a una mano, ma quasi
non se ne accorge. Carezza il marito riverso su di lei ormai
in stato di incoscienza, in una pozza di sangue. Il killer saltella,
ancora, in una grottesca danza di morte. Il suo viso si
è contratto in una smorfia beffarda mentre, quasi senza fretta,
si avvia verso la 127 targata Palermo che lo aspetta con
il motore acceso. L’utilitaria sgomma e parte di corsa, dileguandosi
in direzione di piazza Politeama. Tutta la scena è
stata seguita dall’alto dalla collaboratrice domestica della
famiglia Mattarella, la signora Giovanna, che era affacciata
alla finestra. Anche lei è rimasta colpita dallo strano modo
di camminare dell’assassino.
Racconta oggi Maria con voce tranquilla, ma con lo
sguardo velato di tristezza: «Ne abbiamo discusso tante volte
con mamma. E abbiamo concluso che è stato un bene che
ci fossimo trovati tutti insieme in quel momento, con papà.
È come se lo avessimo accompagnato fino alla fine. Non
abbiamo mai pensato: “Sarebbe stato meglio non essere lì,
non assistere alla scena della sua morte”».
Accorrono i primi passanti, qualcuno esce di corsa dal
bar che si trova tra l’abitazione dei Mattarella e il garage.
Proprio dal telefono di quel bar Bernardo riesce, in stato di
trance, a chiamare il 113. Una seconda telefonata è per lo
zio Sergio, il fratello minore di Piersanti, che abita anche lui
a via della Libertà, a un paio di isolati dal luogo dell’attentato.
Sopraffatto dal dolore e dallo shock, Bernardo non riesce
a dirgli tutta la verità: «Zio, corri giù, c’è stato un incidente
a papà». Sergio scende subito in strada, preoccupato.
La scena che gli si para davanti, con quell’auto crivellata
di colpi e piena di sangue, è violenta, allucinante, insostenibile.
L’ambulanza tarda ad arrivare, sul luogo è però
giunta una volante della polizia. C’è anche un medico, Orietto
Giuffré, amico dei Mattarella, che si trovava lì di passaggio. Aiuta i familiari a caricare Piersanti, in agonia, sulla
volante. A bordo sale anche Sergio, davanti, mentre il dottor
Giuffré si sistema dietro, accanto al presidente. Lo accompagnano
per l’ultimo viaggio, a sirene spiegate, verso il
pronto soccorso di Villa Sofia. Non è un tragitto lungo ma
le speranze di sopravvivenza del presidente si assottigliano.
Sergio ricorda ancora l’espressione sempre più sconfortata
di Giuffré e la voce concitata proveniente dalla radio della
polizia: «C’è stato un attentato a via della Libertà… Non
sappiamo se si tratti di un giudice o del presidente della Regione…
». E il poliziotto a bordo che quasi urla: «Confermiamo,
è stato colpito il presidente della Regione».
Piersanti non ha mai ripreso conoscenza. Anche se qualche
giornale scrive, romanzando, che prima di morire avrebbe
sussurrato parole riferite all’adorata moglie: «Non dite
nulla a Irma, non fatele sapere». All’arrivo all’ospedale il
ferito viene caricato in barella e portato di corsa dal medico
di guardia che prova subito a rianimarlo con un massaggio
cardiaco. Per il presidente della Regione Sicilia, raggiunto
da sei pallottole alla tempia, alle spalle, al petto, al fianco
destro, non c’è scampo. Il suo giovane cuore si ferma sette
minuti dopo l’ingresso in quell’ospedale. L’autopsia rivelerà
che già i primi colpi sono stati fatali. È Sergio, affranto,
a comunicare alla folla che si è concentrata fuori dall’ospedale
che «non c’è più nulla da fare».
Nella chiesa di San Francesco di Paola la messa dell’Epifania
si è appena conclusa: i fedeli, ancora ignari dell’attentato,
sciamano festosi verso l’uscita. Il vangelo di Matteo
ha appena ricordato la storia dei magi, venuti da Oriente, e
la loro «gioia grandissima» nell’assistere alla manifestazione
di Dio in quel bambinello nella grotta. Ma per la famiglia
Mattarella il Signore quel giorno si è manifestato sotto il
simbolo misterioso e dolente del legno della Croce.
In ospedale si allestisce una prima provvisoria camera
ardente che diventa subito meta di parenti, amici e autorità
cittadine. Ad accogliere tutti c’è il fratello Sergio, con il golf
ancora sporco di sangue. Al suo fianco, affranta, sua moglie
Marisa, sorella minore di Irma. Arrivano il presidente
dell’Assemblea Siciliana il comunista Michelangelo Russo,
il segretario della Dc regionale Rosario Nicoletti, particolarmente
provato, e quello del Pci Gianni Parisi. Sfilano davanti
alla salma deputati regionali di tutti i partiti, leader
sindacali, gli amici del “Gruppo politica”, la corrente di giovani
professorini fondata da Mattarella. Si affacciano costernati
il questore, il prefetto, il comandante provinciale dei
carabinieri.
Entrano trafelati anche due agenti della scorta del presidente:
sono sconvolti. Il più giovane dei due ha ancora sotto
braccio la paletta rossa con cui si è fatto largo tra le auto
per raggiungere rapidamente l’ospedale: alla vista del corpo
senza vita del suo presidente quasi sviene per l’emozione e
viene portato via a braccio dai colleghi.
La gravissima notizia dell’assassinio di Piersanti Mattarella
fa subito il giro dell’Italia e del mondo. “L’Ora”, il
giornale progressista di Palermo, esce nel pomeriggio in
edizione straordinaria, consegnando alla città una sequenza
di immagini crude e dolorose. Due fotografi del quotidiano,
Letizia Battaglia e Franco Zecchin, si trovavano per
caso nei pressi di via della Libertà. Sentiti gli spari, sono
accorsi sul luogo dell’attentato. In una foto si scorge la signora
Mattarella di spalle, ancora dentro la macchina, che
aiuta il cognato Sergio a far uscire dall’abitacolo il corpo
del marito.
I sindacati confederali siciliani, Cgil, Cisl e Uil, proclamano
immediatamente uno sciopero generale con corteo a
Palermo per il giorno successivo, mentre i lavoratori di tutta Italia sono invitati a incrociare le braccia per un quarto
d’ora in segno di protesta contro la violenza. L’uccisione del
presidente della Regione siciliana è un fatto senza precedenti.
Nell’Italia di quegli anni, insanguinata dal terrorismo e
dalla mafia, attentati e uccisioni sono quasi quotidiani. E
talvolta si corre il rischio di forme di assuefazione alla violenza.
Non è questo il caso. Sconcerto, sdegno e commozione
si diffondono rapidamente in tutto il Paese. Colpisce la
personalità del giovane presidente ucciso, la cui opera di
rinnovamento in un contesto difficile come quello siciliano
aveva suscitato simpatia. Impressiona la gravità del nuovo
attacco portato al cuore dello Stato, a poco meno di due anni
dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro, a cui Mattarella
era politicamente e umanamente legato. Turbano le
modalità, insolite e crudeli, dell’omicidio.
Da Roma si fa sentire forte la voce del presidente della
Repubblica Sandro Pertini, che aveva conosciuto da vicino
Piersanti, in novembre, durante una visita di tre giorni in
Sicilia. Era stato Mattarella a invitarlo. E dopo quella visita
Pertini si era iscritto nella lunga lista dei simpatizzanti del
giovane politico siciliano. In un messaggio alla vedova, il
presidente scrive di piangere «l’uomo giusto e coraggioso
di cui ho conosciuto e apprezzato […] l’ingegno e le grandi
qualità umane, civili e politiche». Il capo dello Stato scrive
anche al segretario nazionale della Dc, Benigno Zaccagnini,
rilevando che l’omicidio Mattarella «è un altro pesante tributo
di sangue che la Dc paga alla difesa della Repubblica
e dell’ordine democratico contro ogni tipo di criminalità
eversiva».
Subito dopo parla il presidente del Consiglio Francesco
Cossiga. Si dice convinto che «le forze dello Stato, con la
solidarietà e l’appoggio fattivo di tutti i cittadini, non lasceranno
impunito l’assassinio di Mattarella, assicurando alla giustizia esecutori e mandanti». Parole che purtroppo
saranno smentite – almeno parzialmente – negli anni successivi.
Messaggi di condanna per l’efferato omicidio e di solidarietà
alla famiglia arrivano anche dai presidenti di Camera
e Senato, Nilde Iotti e Amintore Fanfani. Il segretario
della Dc Benigno Zaccagnini si trova a casa, a Ravenna, indisposto.
Vorrebbe partire subito per Palermo, ma le condizioni
fisiche non glielo permettono. La notizia della morte
del giovane amico riapre una ferita dolorosa: Zaccagnini
non si è mai ripreso dall’uccisione di Moro. Nel suo messaggio
tiene a ricordare che Piersanti «è stato uno dei giovani
più vicini e più stimati da Aldo Moro, di cui condivise
sempre visione e impegno politico». E ora ha condiviso con
l’antico maestro il tragico destino. Per la Dc partono alla
volta di Palermo il presidente del consiglio nazionale Flaminio
Piccoli e il vicesegretario Nino Gullotti.
Anche Giovanni Paolo II fa arrivare alla famiglia Mattarella,
attraverso il cardinale di Palermo, parole di cordoglio
e di conforto. Commosso dall’uccisione di quel giovane presidente
di Regione anche il presidente della Commissione
della Comunità Europea Roy Jenkins, che ha sperimentato
proprio a Palermo il vento rinnovatore portato dalla presidenza
Mattarella.
A via della Libertà, intanto, le forze dell’ordine tengono
a bada una piccola folla di curiosi, fotografi e giornalisti ma
anche tanti semplici cittadini accorsi a testimoniare vicinanza
e dolore. Nelle foto di quel giorno si scorge un giovane,
con un cappotto color cammello, che ispeziona l’automobile
del presidente Mattarella.
È Piero Grasso, futuro procuratore
antimafia e presidente del Senato, all’epoca sostituto
procuratore a Palermo. Era lui di turno quel 6 gennaio. E
verrà successivamente incaricato delle prime indagini dal procuratore capo Gaetano Costa. Magistrato schivo e irreprensibile,
anche Costa sarà ucciso nell’agosto del 1980, in
un agguato a Palermo. «Di lui», commentarono i suoi colleghi,
«si poteva comprare solo la morte».
Le indagini sulla morte del presidente della Regione vengono
avviate in tutte le direzioni e senza risparmiare mezzi.
Non si tralascia alcuna pista: quella di mafia, innanzitutto,
correlata all’attività di rinnovamento della Regione promossa
da Mattarella. Un’attività che sicuramente ha pestato i
piedi a qualcuno interessato a mantenere una situazione di
opacità, di favoritismi e di inefficienza. Ma a nessuno sfugge
nemmeno la inquietante analogia che lega il delitto Mattarella
a quello Moro, avvenuto poco meno di due anni prima.
Entrambi lavoravano per favorire l’evoluzione in senso
compiutamente democratico del Pci attraverso il dialogo, il
confronto e l’associazione all’area di governo. Mattarella,
addirittura, aveva preceduto il suo maestro nella formazione
della sua prima giunta regionale, avvenuta con il voto favorevole
dei comunisti siciliani. Una formula, definita di “solidarietà
autonomistica”, che anticipava fattivamente la solidarietà
nazionale di Moro e Berlinguer. Ma il progetto politico
di Moro e di Mattarella aveva molti nemici non solo
nella Dc siciliana e nazionale. Erano infatti in molti, in Italia
e perfino all’estero, a giudicarlo velleitario e pericoloso.
Polizia e carabinieri organizzano interrogatori, setacciano
interi quartieri, effettuano perquisizioni e posti di blocco
in tutta l’isola. Vengono ascoltati testimoni, fermati e interrogati
militanti di estrema destra ed estrema sinistra. Vertici
convulsi si svolgono tra procura, questura e prefettura. Alla
polizia arriva una telefonata anonima. Un uomo racconta di
aver visto due persone uscire dalla 127 bianca in via De Cristoforis,
a meno di un chilometro e mezzo dal luogo della
sparatoria. L’auto, al vaglio degli inquirenti, ha una targa falsa, costruita con la giustapposizione di pezzi di due targhe
trafugate; risulta rubata a Palermo, in via de’ Cosmi, la
sera prima del delitto: il proprietario l’aveva lasciata un attimo
in sosta in seconda fila con le chiavi attaccate al quadro.
Secondo l’anonimo, i due giovani sarebbero entrati in
un androne di un palazzo per cambiarsi d’abito. Successivamente
sarebbero saliti su una Fiat 850 grigia, guidata da
un terzo complice. Il testimone fornisce perfino la targa.
Sembra un’ottima pista ma, rintracciato e interrogato l’ignaro
proprietario della 850, i poliziotti si rendono conto che si
tratta di un clamoroso falso.
Gli inquirenti ascoltano subito la vedova Mattarella –
appena tornata dal centro traumatologico dell’Inail, dove
le hanno medicato la mano ferita – i figli e la collaboratrice
domestica. Le loro testimonianze permettono alla polizia
di diffondere un identikit del killer, ritratto con e senza
occhiali.
Arrivano anche le prime rivendicazioni telefoniche. Sono
però tutte successive alla diffusione in tv della notizia
della morte del presidente e, per questo, devono essere vagliate
con grande attenzione. La prima è alle 14.55. Un
giovane telefona alla sede palermitana dell’Ansa. Ha una
voce insicura, dice di parlare a nome dei Nuclei Fascisti
Rivoluzionari. Scandisce: «Rivendichiamo l’uccisione
dell’onorevole Mattarella in onore dei caduti di Acca Larenzia
a Roma».
I caduti di Acca Larenzia – madre adottiva di Romolo e
Remo – dicono poco o nulla ai giornalisti palermitani. Fanno
subito ricerche e alla fine collegano quel nome mitologico
a un grave e recente fatto di sangue avvenuto nella capitale
giusto due anni prima. Il 7 gennaio del 1978, infatti,
due ragazzi del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e
Francesco Ciavatta, erano stati uccisi da estremisti di sinistra in un agguato davanti alla sede del Movimento Sociale
Italiano in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano. Un
terzo giovanissimo militante missino, Stefano Recchioni,
era morto poche ore dopo, colpito da un proiettile sparato
da un ufficiale dei carabinieri durante violenti tafferugli
scoppiati di fronte al luogo della tragedia. Quella strage che
aveva coinvolto, sia pure in momenti diversi, militanti di
estrema sinistra e forze dell’ordine, segnò per esplicita ammissione
dei protagonisti un momento di non ritorno nella
recrudescenza dell’azione dei Nuclei Armati Rivoluzionari
(Nar), la più micidiale organizzazione terrorista di estrema
destra.
Alcune ore più tardi, poco prima delle 19, un uomo telefona
alla sede di Messina della “Gazzetta del Sud” per una
seconda e opposta rivendicazione. L’uomo dice di parlare a
nome delle Brigate Rosse e annuncia il rilascio imminente
di un comunicato, che però non verrà mai diramato. Alla redazione
romana del “Corriere della Sera” arriva successivamente
un’altra telefonata che attribuisce l’uccisione alla colonna
palermitana dell’organizzazione terrorista di sinistra
“Prima Linea”. Il giorno dopo a “L’Ora” di Palermo, quarta
rivendicazione, ancora a firma Br. La macchina del depistaggio
è in pieno movimento e gli inquirenti mostrano di
non credere troppo a quelle dichiarazioni.
In serata il corpo di Piersanti viene trasportato in via della
Libertà. L’ha deciso Irma. Vuole avere ancora il marito
accanto, a casa, per l’ultima notte. La salma viene sistemata
nello studio del presidente, in mezzo ai libri e alle carte.
Le visite di cordoglio non conoscono interruzioni. I presenti
ricordano un abbraccio tra la vedova Mattarella e il segretario
regionale della Dc Rosario Nicoletti, amico e sostenitore
di Piersanti. Erano andati tutti a cena con le mogli, pochi
giorni prima, al Charleston: lui, Piersanti, Sergio e un’altra coppia di amici. Avevano parlato anche di politica, del
partito e della Sicilia da rinnovare. Nicoletti, impietrito dal
dolore, confida a Irma: «Hanno buttato una moneta. O usciva
lui o uscivo io». Lei replica premurosamente: «Lei ha
figli piccoli, si guardi le spalle, si guardi le spalle…».
Quattro anni dopo, il 17 novembre del 1984, Rosario Nicoletti
si suicidò gettandosi dalla finestra della sua abitazione
al quarto piano di via Lincoln. Un gesto improvviso e
inaspettato le cui reali motivazioni non sono state mai chiarite
completamente.
Su un altare improvvisato accanto alla bara del presidente
della Regione, monsignor Nino Porcaro, parroco di Santa
Lucia e amico di Piersanti, celebra a casa la messa domenicale
per la famiglia Mattarella. Come noterà il cardinale
Pappalardo nell’omelia funebre, la messa festiva cui Mattarella
doveva assistere «fu tramutata in una messa di suffragio
».
Per una sorprendente coincidenza il “Giornale di Sicilia”
di quella stessa mattina era uscito in edicola con una lunga
intervista al presidente della Regione rilasciata il giorno precedente.
Incalzato dalle domande di Giovanni Pepi, Mattarella
rispondeva con la consueta concretezza. La giunta di
transizione Dc-Psi-Pri-Psdi era in crisi e si stava cercando
di capire se la nuova, che doveva nascere, avrebbe potuto
vedere nuovamente un ruolo attivo dei comunisti. Nel 1978,
infatti, Mattarella aveva guidato un governo regionale con
il coinvolgimento esterno del Partito Comunista: un fatto
assolutamente nuovo per l’Italia. E la giunta era caduta proprio
per il ripensamento dei comunisti siciliani.
Il giornalista riportò a Mattarella le parole del responsabile
enti locali della Dc dell’epoca, Antonio Gava. Quest’ultimo
aveva subordinato il futuro della collaborazione con il
Pci nella giunta regionale siciliana alle conclusioni dell’imminente
congresso democristiano. Il congresso doveva decidere
se proseguire o meno la linea della solidarietà nazionale
nel governo centrale. I livelli periferici si sarebbero poi
dovuti adeguare. Pepi chiese allora a Mattarella se non ritenesse
di sentirsi con le «armi spuntate», in attesa di decisioni
che sarebbero state prese a Roma. L’intervistato rispose
senza scomporsi:
- Al congresso Dc manca solo un mese. Ma qui è necessaria una
considerazione più complessiva. Non c’è dubbio, le armi possono
apparire spuntate. I nodi politici ci sono e sono grossi,
legati a scadenze, che del resto erano prevedibili, che riguardano
la Dc ma non solo la Dc. Mi auguro che possano sciogliersi
nel minor tempo possibile al di là di ciò che Gava ha
detto.
Il decennio appena iniziato, faceva notare Mattarella, non
era nato sotto buoni auspici. Nel 1979 era scoppiata, a seguito
della rivoluzione khomeinista in Iran, una vera e propria
crisi energetica che aveva creato molti problemi all’economia
occidentale mentre il processo di distensione tra Usa e Urss
aveva conosciuto una pesante battuta d’arresto. A fine dicembre
i carri armati sovietici avevano invaso l’Afghanistan e in
questo clima difficile l’Italia si apprestava, dopo scontri e polemiche,
a ospitare sul proprio territorio le testate nucleari
della Nato, i cosiddetti “euromissili” (istallati successivamente
nella base siciliana di Comiso). Di fronte a questa pesante
situazione, ribadiva Mattarella, in Sicilia c’era bisogno di un
governo stabile ed efficace:
- Il peggio è cominciato. Il quadro internazionale è politicamente
pesante, le conseguenze economiche sono gravi principalmente
per le aree depresse come il Mezzogiorno d’Italia. Ma
il peggio va affrontato.
La situazione della Sicilia era particolarmente difficile,
perché l’isola scontava ancora, rispetto ad altre Regioni meridionali,
- il prezzo di una marginalità geografica che è anche economica.
C’è un processo di espansione della struttura industriale
del Nord di cui beneficia chi sta più vicino e non la Sicilia. Qui
sono aumentati di poco i posti di lavoro nell’industria, si sono
ridotti nell’agricoltura, si è avuto un incremento nei servizi e
nel turismo. Contemporaneamente è aumentata la domanda
dei posti di lavoro, dunque il problema si è aggravato diversamente
dai nostri propositi. Da questo punto di vista le incognite
dell’80 sono più preoccupanti.
Non mancò nell’intervista un riferimento alla mafia. Il
cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, aveva da poco
pubblicato una lettera pastorale, intitolata La persona umana
e il diritto alla vita. Riflessioni per l’Avvento 1979, nella
quale prendeva di petto non solo gli appartenenti ai clan mafiosi,
ma puntava anche il dito sulla cosiddetta zona grigia,
sul conformismo diffuso, sulla mancanza di coraggio, sul
rifiuto della legalità, sul clientelismo, sulle complicità implicite:
tutti fattori che costituivano il retroterra per la formazione
della cultura mafiosa.