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Infermiere nel corridoio di una sala operatoria
A monte di tutto, un problema annoso e strutturale: gli infermieri in Italia sono insufficienti al fabbisogno. Ne mancano circa 60mila, ma il dato è destinato a crescere perché il combinato disposto tra l’età media elevata del personale, il numero di iscritti ai corsi in Scienze infermieristiche inferiori ai posti disponibili e l’invecchiamento della popolazione porterà il problema ad aggravarsi ulteriormente in pochi anni.
Il Rapporto dell’Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario Italiano (OASI), presentato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) della SDA Bocconi School of Management presentato il 3 dicembre dà i numeri della coperta corta: tra il 2019 e il 2023, il personale infermieristico e ostetrico è aumentato del 7,8%, raggiungendo le 289.545 unità, ma questa crescita risulta del tutto insufficiente rispetto ai bisogni. Con 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, l’Italia si colloca ben al di sotto della media dell’Unione Europea di 8,4. Ancora più significativo è il rapporto tra medici e infermieri: solo 1,3 infermieri per medico, contro valori compresi tra 2,6 e 2,9 in Paesi come Francia, Germania e Regno Unito.
Da qualche giorno tiene banco il caso San Raffaele: la crisi organizzativa di Medicina ad alta intensità, Medicina di cure intensive e Admission room, un reparto delicato, esplosa a Milano nella struttura di Via Olgettina, nella notte tra il 6 e il 7 dicembre, in seguito al reclutamento in emergenza di infermieri extraeuropei da una cooperativa. Il caso ha portato alle dimissioni dell’amministratore unico dell'ospedale San Raffaele di Milano, Francesco Galli, e alla nomina di Marco Centenari come nuovo amministratore unico, che ha chiesto l’aiuto di Alberto Zangrillo primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Generale, Cardio-Toraco-Vascolare e dell’Area Unica di Terapia Intensiva Cardiologica e Cardiochirurgica, e chief clinical office del San Raffaele che: «Supporterà i vertici e l’organizzazione aziendale per ottimizzare il coordinamento clinico e strategico delle aree cliniche», scrive Centenari in una nota. «La sua indiscussa esperienza e riconosciuta leadership saranno al servizio dell'eccellenza clinica della nostra istituzione»
Mentre a Milano proseguono i controlli (dei Nas e di Ats per conto della Regione) e l’emergenza viene gestita con una cambio di vertici e strategia, sono in tanti ora a ripetere che l’Iceberg - ironia della sorte si chiama così il reparto finito nell’occhio del ciclone per le disfunzioni di cui s’è detto - è la parte emersa di un rischio noto a livello nazionale.
Prova ne è il fatto che il 2 dicembre scorso Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini professionali infermieristici, a siglare un protocollo con Ranstand Italia, azienda che fornisce servizi di reclutamento, per rispondere alla carenza cronica di personale sanitario «un reclutamento etico del personale infermieristico, senza abbassare l'asticella della qualità e, soprattutto, rispettando la dignità dei professionisti, con l’obiettivo di garantire a quello che spesso è un inserimento emergenziale in un percorso strutturato, sicuro e deontologicamente corretto». Segno che il rischio di abbassare lo standard era percepito prima dell’esplosione del caso.
Dopo l’esplosione del caso è stato il Coordinamento regionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche, congiuntamente alla Federazione nazionale, a scrivere un comunicato per dire che: «Pur riconoscendo il problema, globale, della carenza infermieristica, si devono prevedere regole certe in termini di formazione e iscrizione all’Ordine per tutti i professionisti che entrino in contatto con i pazienti. Non dobbiamo dimenticare che il nostro primo impegno è nei confronti del cittadino. Occorre quindi definire quanto prima modalità e percorsi chiari anche per evitare episodi gravi come quelli registrati in queste ore e scongiurare ulteriori rischi legati all’esercizio temporaneo in deroga (previsto ancora fino al 2027) dei professionisti sanitari con qualifiche professionali acquisite all’estero».
Il caso San Raffaele, attraverso la mail interna del medico di guardia nel reparto che ha denunciato le difficoltà degli infermieri della cooperativa, ha plasticamente dimostrato che la necessità di reclutare all’estero non può fondarsi esclusivamente sulla equipollenza dei titoli, perché non basta possedere le nozioni della professione, mentre è sufficiente un equivoco dettato da un malinteso linguistico, per decuplicare un dosaggio e per confondere un farmaco con l’altro, a maggior ragione, e sembra sia questo il caso, se si viene inseriti, come assunti da cooperative esterne, nel lavoro d’équipe in modo repentino, senza conoscere bene la dislocazione e le prassi del reparto in cui prende servizio, con impatti sulla continuità dell’assistenza.
A finire sotto accusa è in particolare la scorciatoia dell’articolo 13 del decreto “Cura Italia”, concepito per far fronte alla fase più acuta della pandemia, poi ampliato dall’articolo 15 del DL 34/2023 e infine prorogato fino al 2027 dalla legge 187/2024. «Questa legge, spiega Roberto Carlo Rossi, presidente dell’ordine dei medici di Milano, ha creato un doppio binario. Da una parte chi segue il percorso regolare: riconoscimento del titolo, esame di lingua, iscrizione all’Albo, responsabilità deontologica. Dall’altra un sistema alternativo, costruito in emergenza, che consente l’accesso alla professione senza queste garanzie fondamentali. È un’impostazione sbagliata, pericolosa, e oggi ne vediamo le conseguenze concrete».
La contraddizione nel sistema è evidente. Da un lato infatti prima la Regione Lombardia nel 2023, e poi il Governo hanno posto uno stop al reclutamento nel pubblico dei cosiddetti “gettonisti”, finito sotto la lente dell’Anac per i costi lievitati: dal 31 luglio 2025 è scattato il divieto per gli enti del SSN, ossia del settore pubblico, di stipulare nuovi contratti con medici e infermieri reclutati tramite cooperative o aziende private per coprire turni a chiamata, mantenendo solo i contatti già in essere fino a naturale scadenza, consentendone l’impiego solo in casi di estrema necessità e urgenza, in un’’unica occasione e senza possibilità di proroga, fissando con limiti di tariffe orarie. Ma resta il problema di coprire i turni: «Se da un lato lo stop ai “gettonisti” – si legge nell’ottavo rapporto Gimbe sul Sistema sanitario nazionale,- «nasce dal lodevole obiettivo di superare una distorsione nella gestione delle risorse umane, dall’altro apre a criticità rilevanti», la prima delle quali è la copertura dei turno specie nelle specialità di emergenza/urgenza nelle aree geografiche più decentrate e nei periodi di ferie. «Un rischio che i Direttori Generali delle Aziende sanitarie non possono permettersi, perché significherebbe lasciare scoperti servizi essenziali con rischi per i pazientie ricadute legali legate alle loro responsabilità».
Dall’altro lato per tamponare si tiene in vigore la finestra legale che consente il reclutamento in deroga ereditata dall’emergenza Covid.
A monte c’è sempre la coperta corta di cui si diceva all’inizio, che non è facile rattoppare, dato che gli infermieri che vanno in pensione o che si dimettono, come evidenzia il rapporto Fnopi S’Anna di Pisa, sono più di quelli che entrano nella formazione di una professione in Italia diventata poco attrattiva, nel bilancio tra quello che chiede e quello che dà.
Il risultato è che la coperta si tira sempre di più e il problema si avvita su sé stesso come un cane che si morde la coda: «Il pubblico non ce la fa? C'è il privato. Il privato non ce la fa neppure lui?», riassume brutalmente Fp Cgil, «C'è la cooperativa e via così. Alla fine learrivano spesso solo per garantire una copertura più formale che di servizio: professionisti non formati, pagati poco e male, buttati in prima linea. Esattamente quanto accaduto nella notte tra il 6 e il 7 dicembre: il personale strutturato se ne va, arrivano le cooperative e non sono in grado di dare un servizio strutturato. Questi disservizi accadranno sempre più spesso».






