Piergiulio
Biatta è il presidente dell’Osservatorio Permanente
sulle Armi Leggere (Opal) di Brescia, un’associazione promossa
da diverse realtà per diffondere la cultura della pace ed offrire
alla società civile informazioni di carattere scientifico sulla
produzione e il commercio delle armi. Vi aderiscono, tra gli altri,
la Diocesi di Brescia, la Cgil, Pax Christi, i Missionari Saveriani e
Comboniani, il Servizio Volontario Internazionale.
Ora,
l’Osservatorio punta il diritto contro il gruppo Beretta di Gardone
Val Trompia, il
maggior produttore italiano di armi leggere.
–
Cosa contestate alla Beretta?
«Ci
sono due fatti che abbiamo segnalato nelle ultime settimane. Il primo
è una notizia che arriva dalla Finlandia, grazie all’organizzazione
SaferGlobe.
In
un rapporto ha messo sotto esame il sistema dei controlli sulle
esportazioni di armi leggere e munizioni del Paese scandinavo: la
Beretta di Gardone è ripetutamente citata e molti sospetti si sono
concentrati sulla Sako Oy, azienda finlandese con sede a Riihimäki
che fa parte del gruppo Beretta, produttrice di fucili per sniper
(cioè
“da cecchino”) in dotazione alle forze speciali di numerosi Paesi
e in gara anche per rifornire i green
berets Usa.
A quanto risulta, 205 fucili Sako, modelli TRG-22 e TRG-42, sono
stati consegnati alle forze speciali del Bahrein nel gennaio 2011,
cioè poche settimane prima dei gravi disordini scoppiati nella
capitale Manama e dell’uccisione di numerosi manifestanti, colpiti
da proiettili di fucile sparati proprio dai “cecchini” delle
forze speciali governative. L’esportazione è avvenuta con una
regolare licenza di tipo militare. Tuttavia, la Sako non ha richiesto
lo stesso tipo di licenza per accessori e munizioni chiaramente
collegabili alla stessa fornitura: si tratta di ben 20 tonnellate di
munizioni speciali per fucili TRG e accessori. Per questo, alcune
organizzazioni finlandesi, tra cui Amnesty International, hanno
citato in giudizio sia la Sako, per non aver richiesto licenze
militari anche per il materiale accessorio, sia il governo finlandese
che non ha considerato “militare” l’export di munizioni
destinate ai fucili per sniper
diretti
in Bahrein».
–
E
il secondo fatto?
«Tra
il 2009 e il 2011, la Sako ha esportato 1100 fucili TRG con licenze
di tipo militare che indicavano come destinatario l’Italia, e
precisamente la società Fabbrica d’Armi Pietro Beretta di Gardone
Val Trompia. Sostanzialmente, li vendeva a se stessa. Come Opal ha
potuto constatare dalle “Relazioni
sulle Operazioni autorizzate” che il Governo
italiano è obbligato a presentare in Parlamento secondo la legge
185/90, si sono verificati casi di licenze concesse dalle autorità
italiane alla società Beretta per l’esportazione di fucili Sako
TRG ad altri Paesi, ad esempio 150 fucili all’Albania nel 2012. Ci
sono anche casi di esportazione in Turchia, molto vicina alla Siria
in guerra e al Libano… Insomma, il gruppo Beretta sembra aver
aggirato la normativa finlandese ed europea per evitare di dichiarare
i destinatari finali reali delle armi esportate».
"Il commercio d’armi non conosce crisi, il fatturato è in crescita"
– A
suo avviso, questi fatti cosa mettono in luce?
«Che
il commercio di armi sfrutta le carenze delle legislazioni nazionali
ed europee per rifornire
Paesi
in cui si sono violati i diritti umani. Del resto, munizioni Beretta
furono trovate addirittura nel bunker di Gheddafi. A livello
comunitario, il commercio di armi leggere, infatti, è legale, purché
non riguardi Paesi sotto embargo o che non rispettano i diritti
umani; ogni esportazione deve poi essere autorizzata da un’autorità
governativa. Tuttavia, la Ue non ha una normativa comune, ogni Paese
ha la sua. Con un paradosso: se uno sfora le quote latte, riceve una
sanzione pecuniaria forte; se uno vende armi a Paesi non idonei,
viene solamente richiamato. Il caso Beretta evidenzia un problema di
trasparenza in Italia, molto più debole rispetto alla Finlandia. Noi
a Brescia stiamo ancora aspettando risposte dal questore per capire
come mai sia stata autorizzata l’esportazione di armi in Egitto e
Kazakhistan: da tempo, siamo ancora senza risposta».
–
I
produttori di armi provano a fare pressioni sui governi?
«Sì,
già
nell’aprile 2013 la direzione della Sako ha dichiarato alla stampa
l’intenzione della casa-madre di Gardone di portare in Italia le
produzioni di fucili militari, dal momento che il governo di Helsinki
non aveva concesso licenze di esportazione verso Paesi come la
Giordania, l’Arabia Saudita e l’Ucraina. Più
che una strategia industriale, si tratta di un tentativo di fare
pressione sulle autorità locali per aggirare una legislazione –
quella finlandese – che la società Beretta considera più rigida
di quella italiana».
–
Qual è la
situazione economica del mercato di armi leggere?
«Il
commercio d’armi non conosce crisi, il fatturato è in crescita. Da
Gardone Val Trompia, la multinazionale Beretta controlla fabbriche in
mezza Europa, fino al Canada, la Russia e la Cina. Le armi con il
marchio italiano arrivano in quasi tutto il mondo: la sua controllata
turca Stoeger Silah Sanayi esporta, ad esempio, in 40 Paesi.
L’Italia, da terza, è tornata seconda, dopo gli Usa, nella
classifica mondiale della produzione e del commercio di armi leggere.
L’85-90% viene prodotto nella provincia di Brescia, nel distretto
valtrompino».
– La
riconversione delle fabbriche è possibile?
«Sì,
è la strada da percorrere. È un processo lungo, ma assolutamente
possibile. Un modello è il caso Valsella, la fabbrica di Castenedolo
(Brescia) che, negli anni ‘80, era tra i principali produttori di
mine antiuomo. Con la messa al bando delle mine, è stata
riconvertita in azienda che produce i pistoncini per far scoppiare
gli airbag nelle macchine. Da una fabbrica che produceva per uccidere
è diventata una fabbrica che salva gli uomini».