Liliana Segre con Gunter Demnig, l’artista che ha ideato le Pietre d’Inciampo (foto Ansa)
Un lavoro di fino, portato a termine con dedizione. Chino sul marciapiede, ha ripulito il vano in cui inserire la pietra che poi, malta e cazzuola, ha sistemato davanti alla casa in cui visse Giuseppe Levi, morto a Mauthausen. Poi la passata finale con una spugnetta bagnata, perché la targa d’ottone potesse luccicare pulita. In questi giorni Gunter Demnig, l’artista tedesco che nel 1996 ha ideato le Pietre d’Inciampo, è a Milano per posare 30 nuove “formelle della memoria” intitolate ad altrettanti milanesi deportati nei campi di concentramento nazisti, fra cui Giuseppe Levi appunto.
Chi fosse Levi, nel “suo” palazzo di via Foppa nessuno lo sapeva più. «Commerciava con l’estero. Collaborava con l’amministrazione pubblica e per questo si sentiva sicuro. Invece qualcuno lo denunciò e lo arrestarono», racconta la nipote Marici Levi, 59 anni, arrivata da Bari per la cerimonia promossa dal Comitato per le Pietre d’Inciampo (che ha l’adesione del Comune di Milano ed è guidato dalla senatrice a vita Liliana Segre).
«Mio padre Silvano è morto due anni fa, sarebbe stato felice di veder ricordato suo padre Peppino (così era chiamato Giuseppe, ndr)», dice ancora Marici. «Quanto sia importante fare memoria lo ripeto sempre ai miei figli, anche se ormai sono adulti: nonno Peppino è stato deportato 75 anni fa, non in un’epoca remota».
Una storia da non dimenticare, quella di Levi e degli altri 5 milioni gli ebrei uccisi fra il 1933 e il 1945 dal regime nazista e i suoi alleati. Le pietra posate da Demnig, più di 70 mila in oltre 2 mila città di tutta Europa, misurano solo 10 centimetri per lato. Eppure lasciano una traccia importante di chi non è tornato: nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione e morte.
Era il 14 gennaio 1944 quando Giuseppe Levi venne condotto nel vicino carcere di San Vittore per poi salire su un convoglio al tristemente noto binario 21 della Stazione Centrale (da dove partì anche Liliana Segre, oggi trasformato nel Memoriale della Shoah). «Aveva 40 anni ed era rimasto prematuramente vedovo. La moglie Marici era morta nel 1932 dando alla luce il figlio Silvano che, visti i frequenti viaggi di lavoro del padre, crebbe con una famiglia di parenti materni a Reggio Emilia. Fu la sua fortuna: rifugiato sotto falso nome, scampò ai rastrellamenti».
Dopo la morte della moglie, Levi si era legato a una donna di nome Adriana, non ebrea, che non aveva potuto sposare a causa delle leggi razziali. Ad Auschwitz, Levi superò la selezione iniziale e sopravvisse sino all’evacuazione del campo, quando fu costretto alla “marcia della morte” (la marcia forzata per trasferire i prigionieri da un lager all’altro) con destinazione Mauthausen, dove fu ucciso il 28 febbraio 1945, pochi mesi prima della liberazione del campo (5 maggio 1945).
Demnig, 72 anni, ha fatto suo il passo del Talmud che recita: “Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”. Per questo posa personalmente quasi tutte le Pietre d’inciampo: «Per ogni pietra un nome, una persona da non dimenticare», dice mentre sistema gli attrezzi. In Italia – dove gli ebrei deportati furono 6.806 e di questi solo 837 sopravvissero – le Pietre d’Inciampo sono state posizionate nelle grandi città come Roma, Bolzano, Genova, L’Aquila, Livorno, ma anche in centri più piccoli.
Incastrate nei selciati o nell’asfalto, sono un inciampo. Chiedono, giorno dopo giorno, di essere osservate e meditate. Per non dimenticare chi non ha fatto ritorno a casa e ricordare anche ai passanti più distratti quanto può essere tragica l’indifferenza.