L’omicidio della piccola Zohra Shah, la bambina pakistana di 8 anni uccisa dai suoi “padroni”nel Punjab ( a est del paese, ai confini con l’India) perché “colpevole di aver fatto fuggire i pappagalli” accende i riflettori sul dramma dei piccoli schiavi invisibili. Un dramma immane che nel mondo colpisce circa 250 milioni di bambini tra i cinque e i 14 anni, impiegati nelle peggiori forme di sfruttamento, compreso quello sessuale. «In Europa, una vittima su quattro di tratta e di sfruttamento è minorenne e l’obiettivo principale dei trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale», si legge nel rapporto di Save the Children del luglio dello scorso anno, una rivelazione agghiacciante che si conferma nella testimonianza dei profughi sbarcati in Italia alla ricerca di più diritti e dignità. Alcuni li ho incontrati personalmente nel corso della mia attività di operatrice sociale. Erano piccoli e smarriti, anche se felici di essere scampati ad un incubo. Li guardavo con occhi di madre. Dopo averli ascoltati, spesso, la sera, raccoglievo le loro parole in un taccuino, cercando di fissare su carta quei ricordi che mi si erano conficcati nella memoria e un giorno sarebbero diventati testimonianze, grida di dolore, atti d’accusa verso un’umanità incapace di liberarsi dalla schiavitù infantile oltre le soglie del Duemila.
«Mio padre apparteneva a un uomo, era il suo schiavo e lavorava per lui la terra ma anche prendendosi cura dei suoi animali fino a quando è deceduto. Io avevo solo 6 anni quando papà è morto e il suo padrone decise di sostituirlo con me. Ero anch’io suo schiavo, ma fino a quel momento non lo avevo ancora capito. Ero costretto dall’uomo a dormire fuori, insieme alle bestie, perché dovevo essere vigile per prendermi cura degli animali, per lo più buoi e mucche molto più grandi di me anche durante la notte. Se un animale spariva o entrava in terra di altri per mangiare la piantagione, venivo picchiato da lui», mi aveva raccontato un ragazzo della Mauritania che chiameremmo “Aziz” e che purtroppo non è il solo a spiegarci come l’infanzia nel mondo possa essere un “lusso” per pochi bambini.
«Sono originario del Punjab», è il racconto di un giovane pakistano che chiamerò “Javed”. «Nella mia città quasi nessun bambino poteva andare a scuola e quasi tutti dovevano lavorare». Javed prosegue il racconto della sua vita con enorme difficoltà: «a causa della povertà della mia famiglia, avevo iniziato a lavorare anch’io quando avevo cinque anni, per un uomo del luogo». L’unico ricordo che il ragazzo ha della propria infanzia è quello delle violenze subite dal padrone che lo aveva colpito spesso con l’uso di una spranga o di bastoni se sbagliava a fare qualcosa, ma ancora di più ricorda quelle parole umilianti, quelle offese più volte gridategli dal padrone che lo faceva lavorare 12 ore al giorno per un poco di cibo, che ci riportano alla stessa condizione di vita della piccola Zohra.
Nella mia esperienza, alla domanda rivolta ai profughi adulti, “mi parli della sua infanzia”, si seguono risposte fatte per lo più di un lungo silenzio. L’infanzia non è mai esistita nella loro vita di piccoli adulti fin quasi dalla nascita. Dall’Asia all’Africa, il dramma degli schiavi bambini è di una tale evidenza da imporre alle commissioni territoriali italiane che giudicano la richiesta di protezione internazionale dei richiedenti asilo una attenzione particolare, perché la violazione del diritto alla dignità umana già marcatamente presente nella loro vita, dall’infanzia, non può essere ignorata. Da questo fuggono in buona parte anche coloro che in Italia vengono chiamati “migranti economici”. E agli orrori spesso si aggiungano altri orrori durante il percorso migratorio, mentre cercano un luogo più sicuro dove poter vivere liberi.
Si calcola che nei lager libici, finanziati ancora dagli accordi di singoli Paesi come l’Italia nel 2017 e l’attuale accordo di Malta, ci siano migliaia di minori stranieri detenuti illegalmente, sfruttati e maltrattati. Nel racconto di alcuni bambini arrivati nel nostro Paese, dopo essere erano stati segregati per anni nei centri della costa settentrionale africana, gli abusi, le torture e le violenza sono la sola cosa che riescono a ricordare. Il ricordo di quella violenza copre ogni altro ricordo. «Stavamo scappando, eravamo in mare e ci hanno presi e picchiato tanto. C’era anche Ali con noi e gli hanno messo la testa sotto l’acqua», mi ha raccontato un bimbo eritreo di quattro anni, mentre guardava la pioggia rigare i vetri della finestra della casa di accoglienza per rifugiati in cui era approdato. «Gli hanno messo la testa sotto l’acqua, poi Alì non c’era più».
Nella mia esperienza, alla domanda rivolta ai profughi adulti, “mi parli della sua infanzia”, si seguono risposte fatte per lo più di un lungo silenzio. L’infanzia non è mai esistita nella loro vita di piccoli adulti fin quasi dalla nascita. Dall’Asia all’Africa, il dramma degli schiavi bambini è di una tale evidenza da imporre alle commissioni territoriali italiane che giudicano la richiesta di protezione internazionale dei richiedenti asilo una attenzione particolare, perché la violazione del diritto alla dignità umana già marcatamente presente nella loro vita, dall’infanzia, non può essere ignorata. Da questo fuggono in buona parte anche coloro che in Italia vengono chiamati “migranti economici”. E agli orrori spesso si aggiungano altri orrori durante il percorso migratorio, mentre cercano un luogo più sicuro dove poter vivere liberi.
Si calcola che nei lager libici, finanziati ancora dagli accordi di singoli Paesi come l’Italia nel 2017 e l’attuale accordo di Malta, ci siano migliaia di minori stranieri detenuti illegalmente, sfruttati e maltrattati. Nel racconto di alcuni bambini arrivati nel nostro Paese, dopo essere erano stati segregati per anni nei centri della costa settentrionale africana, gli abusi, le torture e le violenza sono la sola cosa che riescono a ricordare. Al violenza riesce a sopraffare persino i loro ricordi. «Stavamo scappando, eravamo in mare e ci hanno presi e picchiato tanto. C’era anche Ali con noi e gli hanno messo la testa sotto l’acqua», mi ha raccontato un bimbo eritreo di quattro anni, mentre guardava la pioggia rigare i vetri della finestra della casa di accoglienza per rifugiati in cui era approdato. «Gli hanno messo la testa sotto l’acqua, poi Alì non c’era più».