Ricky Memphis si emoziona ancora durante le interviste. Nonostante la folgorante carriera televisiva e cinematografica, sembra che una parte di lui non riesca a riconoscersi nelle vesti della star. Sul palco, durante le conferenze, tradisce puntualmente un pizzico di nervosismo: le sue risposte sono sempre più brevi del dovuto, lo sguardo troppo sfuggente per risultare rilassato. In fondo, però, è proprio questa la parte più bella di lui: un’irriducibile genuinità che lo mantiene un uomo pratico, con i piedi per terra, che ama parlare a tu per tu davanti a un caffè anziché a una platea di sguardi adoranti. E così è anche la sua fede: schietta, dritta al punto, persino autoironica.
Memphis non si inerpica in ripidi ragionamenti concettuali ma guarda negli occhi la realtà, provando a capirci qualcosa. È un uomo che non deve difendere nessuna posizione, nemmeno l’orgoglio personale: «Io so di non capirci niente», intercala ogni tanto l’attore nel corso dell’intervista. Ed è anche per questo che, con molta umiltà, ammette di avere un po’ barato con se stesso in gioventù, pur di essere accettato dall’ambiente anticlericale che frequentava. Tutto questo però l’ha reso la persona che è oggi: libero di credere e anche di prendersi un po’ in giro, come nel film Il grande salto. La pellicola, uscita nelle sale il 13 giugno, ha per protagonisti due sfortunati ladri, interpretati da Ricky Memphis e dal suo sodale amico di Distretto di Polizia, Giorgio Tirabassi, qui nelle vesti anche di regista e sceneggiatore.
Nonostante il tono leggero e il finale provocatorio, Il grande salto solleva il tema del destino: lei che idea si è fatto a riguardo?
«Quando ero giovane, e un po’ superstizioso, mi capitava di pensare che esistesse un destino già scritto. Oggi credo invece nella Provvidenza. Noi uomini siamo artefici del nostro futuro, in quanto persone libere. Possiamo scegliere cosa fare e a ogni azione corrisponde una reazione. Credo quindi che dobbiamo dare il meglio di noi nelle circostanze che siamo chiamati a vivere, lasciando però i risultati nelle mani di Dio».
Nel film a un certo punto il suo personaggio dice: «C’è un disegno, solo che noi non lo vediamo perché ci siamo dentro». Come si fa ad avere speranza e a mantenere la barra dritta, quando si è immersi in una realtà così complessa come la nostra?
«Quello che fa la differenza sono i valori: conosco persone magari non credenti, ma rette e umili di cuore. Personalmente, però, sono convinto che la fede sia un elemento determinante per tenere la barra dritta. Se pensiamo che non ci sia nulla dopo questa esistenza, beh, allora tanto vale fare come ci pare. Se invece si ha la consapevolezza che c’è una vita eterna, allora si segue una certa direzione e non è nemmeno così difficile farlo».
Lei quando si è avvicinato alla fede?
«Se credo è solo per grazia: senza la grazia di Dio non c’è nulla, nemmeno la fede. Detto questo, non mi considero un convertito perché ho sempre creduto in Dio. Anzi, fin da bambino nutrivo una vera e propria attrazione per la figura di Gesù. Da giovane però mi sono scagliato contro la Chiesa perché vivevo in un ambiente anticlericale. A dire il vero, però, nemmeno io ero convinto di quello che dicevo! Quando ho iniziato a ragionare con il mio cervello, sono uscito dal gruppo e ho capito che non c’è cristianesimo senza Chiesa».
Molti credenti fanno però fatica a riconoscersi nell’istituzione, soprattutto di questi tempi.
«Non riuscirei a credere senza dei punti di riferimento ecclesiali. Sono profondamente convinto che la Chiesa sia retta dallo Spirito Santo e questa è una gran cosa, al di là degli errori o degli scandali che possono attraversarla. D’altronde, la Chiesa è fatta di esseri umani che sbagliano».
Da dove nasce la sua attrazione per la figura di Gesù?
«È difficile spiegarlo: ero affascinato da quest’uomo della Galilea, dalle sue parole, dai suoi gesti. Provavo per lui un trasporto umano sincero, tant’è vero che quando vedevo un film su Gesù speravo sempre che succedesse qualcosa per cui non venisse crocifisso. Sapevo e so perfettamente che ci ha salvato tutti morendo per noi, eppure non potevo fare a meno di sperare che non accadesse. Forse, all’inizio, ho trovato in Gesù il riferimento maschile e paterno che mi mancava: mio padre è morto quando avevo quattro anni. Crescendo ho poi approfondito la materia, cogliendo le varie sfumature. Resto un cristiano che ci capisce poco, comunque!».
Non deve essere stato facile affrontare la morte di suo padre: il dolore l’ha mai scoraggiata?
«Perdere mio padre è stata un profonda sofferenza, ma sono cresciuto circondato da una grande quantità di persone: mia madre, parenti, zii, amici. Mi hanno inondato di affetto! Sono sempre stato felice, anche se non avevamo molto. Ai miei tempi non c’era poi bisogno di chissà quante cose: eravamo tutti uguali, tutti poveri allo stesso modo… Nemmeno ci accorgevamo che esistesse dell’altro! (ride, ndr). In generale non mi sono mai sentito scoraggiato nella vita anche perché, se credi in Dio, come puoi sentirti così? Non dico che sia facile, anzi io sono un vigliaccone, però si è persa un po’ la teologia del mistero della sofferenza. L’inquietudine e le difficoltà aiutano a far uscire la forza che c’è in noi: una forza che non deve necessariamente tradursi in fede cattolica ma che è in primis uno slancio a vivere».
Nel suo cammino di fede quali riferimenti spirituali ha avuto?
«Per anni mi ha seguito un direttore spirituale. Da quando ho cambiato casa, è diventato però più complesso vederlo: oggi il mio punto di riferimento è la mia parrocchia».
Nel film i protagonisti vanno in pellegrinaggio per chiedere un miracolo. Anche lei ama frequentare i santuari?
«Sono dei luoghi molto belli e importanti, che rispetto, tuttavia non ho mai sentito il bisogno di andarci. La Verità è già stata rivelata con Cristo: non mi servono altri dettagli o risposte. Gesù stesso, come leggiamo nei Vangeli, si arrabbia quando gli chiedono altri segni. Inoltre, è anche un po’ rischioso: metti che vado lì e mi dà una risposta che non mi piace?» (ride,
ndr).