Dai nostri inviati
«C’è sete di pace nel Mediterraneo ferito da troppi conflitti». Adriano Roccucci, ordinario di Storia contemporanea a Roma tre, introduce la seconda giornata dei lavori dei vescovi dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Chiamati, dopo essersi confrontati sulla trasmissione della fede, a riflettere sul rapporto con il mondo, trovano subito sul tavolo i temi più critici che agitano il Mare nostrum. Il punto di partenza, dice lo storico, è una «pace che ha bisogno di dialogo e di amicizia, di costruire ponti e superare i muri della divisione e dell’odio. Oggi nel mondo globale, in un Mediterraneo abitato da donne e uomini disorientati e spesso dominati dalla paura, la speranza cristiana è un’urgenza e una responsabilità. Lo è davanti alle sfide di un cambiamento d’epoca che segna nel profondo le società mediterranee».
Il Mediterraneo, per sua natura «mosaico di tutti i colori», secondo la definizione dello storico francese Fernand Braudel, plurale per la sua collocazione geopolitica, per il profilo culturale, per il tessuto religioso, «mare dell’irriducibile complessità», per dirla con le parole di Andrea Riccardi, ha visto le sue rive, nel tempo, diventare terreno di scontro e di incontro, giocando, «nella storia della civiltà umana, un ruolo assai più significativo di un qualsiasi altro specchio di mare», come spiega dice David Abulafia.
Nella prima parte della sua relazione, Roccucci ricorda come «i disegni del nazionalismo novecentesco hanno inteso ridurre la policromia mediterranea nell’impegno per costruire nuovi Stati omogenei. Guerre, stermini, deportazioni, espulsioni di popolazioni, in sostanza le differenti misure di pulizia etnica adottate nel secolo scorso hanno scompaginato il quadro di convivenza secolare del Mediterraneo. Il risultato è stato non di eliminare le diversità, ma di separarle e contrapporle». Nonostante questo, però, il «Mediterraneo non ha perso il suo carattere peculiare di ambito di relazioni e interazioni, anche conflittuali. Infatti, le dinamiche globali hanno avviato tra XX e XXI secolo processi generatori di nuove forme di convivenza, come quelle provocate dai movimenti migratori, sia nei paesi della sponda nord che in quelli della sponda sud».
La chiave di interpretazione è quella del meticciato. Già papa Francesco a Napoli ha ricordato che «se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo, un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione». In questo mare di scontri e incontri i popoli hanno continuato per secoli a mescolarsi. Roccucci parla del dramma della guerra, di «antichi e nuovi antagonismi, di progetti di espansione di aree di influenza, di strategie di egemonia geopolitica». Ricorda i conflitti in Siria, Iraq e Libia, «ferite aperte e dolorosissime». In Siria nove anni di guerra hanno portato circa 600 mila morti, più di 5 milioni di rifugiati e 6,5 milioni di sfollati interni. «In Iraq dal 2014 al 2017 la guerra con Daesh ha provocato più di 100.000 morti e causato oltre 5 milioni di rifugiati interni, senza considerare le tragiche conseguenze dei conflitti degli anni precedenti. In Libia le stime riportano un numero di vittime tra febbraio e ottobre 2011 che oscilla tra le 50.000 e le 65.000, alle quali si devono aggiungere quelle della seconda fase della guerra civile, iniziata nel 2013 e tuttora in corso, durante la quale si ritiene che siano state uccise oltre 10.000 persone».
E ancora la «violenza terribile e cieca del terrorismo» che «ha accompagnato queste guerre e ha colpito tante vite innocenti, tra le quali, oltre a quelle di credenti musulmani ed ebrei, quelle di numerosi cristiani caduti vittime di atti vigliacchi e insensati. Molti sono stati i cristiani rapiti, di non pochi dei quali non si sono avute più notizie». Tra loro Roccucci ricorda i due metropoliti di Aleppo, Mar Gregorios Ibrahim e Paul Yazigi, e padre Paolo Dall’Oglio.
E anche dove la guerra è finita, come per i Balcani, ci sono fratture ancora non ricomposte. A Gerusalemme e in Terra Santa il conflitto israelo-palestinese resta insoluto, in Libano cresce la fragilità politica, a Cipro c’è ancor ail muro che separa la sua capitale, Nicosia. E ancora la situazione in Ucraina, in Afghanistan, le guerre nell’Africa sub-sahariana, in Yemen, le difficoltà dell’Unione europea, la crisi catalana.
«Molte comunità cattoliche – e non sono pochi tra di voi i vescovi di queste Chiese – hanno vissuto e continuano a vivere il dramma della guerra nei loro Paesi», dice lo storico. «Una delle conseguenze dolorose è l’esodo dei cristiani dal Medio Oriente che non può lasciarci insensibili».
E allora occorre interrogarsi su cosa, come cristiani, «possiamo fare per la pace». Una questione che «non riguarda solo chi detiene le leve del potere politico, militare o economico. C’è una responsabilità particolare dei cristiani in questo tempo difficile. C’è la domanda di fare il possibile e l’impossibile per facilitare la fine delle guerre, per favorire i processi di riconciliazione». Cita papa Francesco che il 7 luglio 2018, proprio a Bari, a conclusione di un incontro tra primati delle Chiese cristiane in Medio Oriente per la pace in quella regione disse: «Non c’è alternativa possibile alla pace. Non le tregue garantite da muri e prove di forza porteranno la pace, ma la volontà reale di ascolto e dialogo».
E allora le domande su cui riflettere sono: «Come contribuire alla pace? Come favorire la pacificazione e la riconciliazione? Come esprimere una inequivocabile scelta evangelica per la non violenza in società violente e violentate dalla guerra?».
Innanzitutto occorre ricordare che «la guerra diffonde violenza nelle società, le riveste dell’abito dell’odio, che sempre più è percepibile nel dibattito pubblico e nella vita quotidiana. Si diffondono le armi. Il militarismo esercita un fascino su settori consistenti della società. Si sta affermando una riabilitazione della guerra, considerata strumento legittimo per risolvere situazioni conflittuali e per perseguire obiettivi politici». Tutto questo costituisce «una grande sfida per i cristiani che fanno del Vangelo della pace il loro orientamento. Lo è per la Chiesa cattolica i cui papi a partire da Benedetto XV nel corso del primo conflitto mondiale hanno maturato lungo il Novecento fino a oggi una articolata e inequivocabile condanna della guerra».
Ma per sconfiggere odio e guerre occorre «educare alla pace». Roccucci ricorda le parole del cardinale Vinko Puljić, «testimone della guerra negli anni Novanta e del lungo terribile assedio di Sarajevo», che ha scritto che «se tutto il male del mondo è come una piramide, allora l’odio è il capo di tale piramide». La Chiesa è chiamata a calmare e non attizzare le passioni nazionali, ad abbattere i muri che dividono le società e a costruire ponti di riconciliazione «con i quali collegare i popoli e le culture, le nazioni e le confessioni». Il primo passo, secondo il cardinale, è «promuovere una cultura del dialogo che incoraggi la conoscenza reciproca e l’accettazione dell’altro nel rispetto delle differenze. Inoltre la Chiesa educa i giovani alla concordia, anche attraverso itinerari di carità che insegnano a essere vicini a chiunque abbia bisogno di aiuto indipendentemente dall’appartenenza religiosa o etnica».
E proprio pensando alle differenti appartenenze religiose, lo storico sottolinea l’imprtanza dle dialogo e della convivenza. «In tutti i nostri Paesi», dice, «viviamo in un contesto plurale dal punto di vista religioso. Le Chiese non possono pensare alla loro missione nella società fuori da questo quadro. Il Mediterraneo è un “lago dei monoteismi”, destinati a essere in relazione – scrive Riccardi - è il mare della “triplice famiglia di Abramo”, per usare l’espressione di Giorgio La Pira. Noi tutti, pur in condizioni differenti tra paesi a maggioranza non cristiana e paesi a maggioranza cristiana, viviamo ogni giorno a fianco di credenti di altre religioni, soprattutto di musulmani e di ebrei».
Roccucci parla del preoccupante «radicato antisemitismo, con nuove minacciose insorgenze come sta avvenendo in Europa, o con persistenti atteggiamenti di ostilità in cui motivazioni politiche si mescolano a pregiudizi antiebraici consolidati in una miscela spesso inscindibile».
«L’antisemitismo», continua, «è un sintomo inoppugnabile dell’alto tasso di divisione e di odio che circola nelle vene delle società. La storia del Novecento ci avverte che quel tasso elevato è gravido di pericoli».
Ma per «combattere l’odio e il pregiudizio occorrono percorsi concreti e tenaci di dialogo e di amicizia. C’è bisogno di un tessuto di amicizia, convivenza e convivialità nelle nostre società: mi pare sia una missione specifica delle Chiese del Mediterraneo». Come già diceva il cardinale Léon-Étienne Duval, arcivescovo di Algeri, nel gennaio 1964, «in un momento non facile per la Chiesa cattolica nell’Algeria da poco indipendente: “La chiave della soluzione dei problemi è il dialogo. Il dialogo, cioè, l’attenzione al proprio fratello, lo sforzo di comprensione, l’apertura del cuore”».
Dialogo soprattutto con il mondo musulmano oggi «attraversato da profonde divisioni di carattere politico e culturale. Alcune di queste sono alla radice di non pochi conflitti del Mediterraneo. Il fondamentalismo islamico – che non è solo un fenomeno islamico, ma che è presente anche in altri mondi religiosi e culturali, basti pensare al suprematismo bianco o al fondamentalismo indù – li ha fomentati provocando sofferenze e morte con le sue manifestazioni violente, ma ha anche sfigurato il volto dell’islam».
Lo storico di Sant’Egido ricorda che, «sulle rive del mare, dal 1986 soffia anche lo spirito di Assisi, che ha toccato numerose città mediterranee. Ricordo qui a Bari, nel 1990, una delle prime tappe, nella quale il compianto arcivescovo Mariano Magrassi, insieme ad altri leader religiosi, affermava: “Qui a Bari, sul Mediterraneo, dove Oriente ed Occidente si incrociano, ma anche Nord e Sud si incontrano, [siamo] convinti che le religioni debbono essere una forza di pace e mai al servizio della guerra”».
Assume grande valore, in questo quadro il documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019, da papa Francesco e del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. Un documento che traccia le linee di una «cultura del dialogo, della tolleranza, della convivenza e della pace». Un testo fondamentale, «un richiamo a cambiare mentalità, a uscire da visioni settarie», come ha osservato il cardinale Sako. Un documento che, sono ancora parole del cardinale, chiama a «osare la pace tutti insieme, a collaborare senza distinzioni di credo, etnia, cultura per il bene dell’umanità».
Per rendere concreto l’impegno per la pace e la fratellanza occorre fare anche uno sforzo di comprensione, capire che «il mondo è cambiato e il Mediterraneo è globale. Non basta continuare a pensare e agire come in passato».
Insieme occorre affrontare una delle più gravi crisi che il Mediterraneo sta attraversando, una crisi di umanità che porta a essere indifferenti verso il grido di sofferenza dei migranti. «Siamo tutti consapevoli», dice lo storico, «che il fenomeno delle migrazioni costituisce un tratto qualificante del nostro tempo, ma potremmo dire di tutta l’età contemporanea a partire dalla metà dell’Ottocento. Nel 2017 nel mondo sono stati registrati 258 milioni di migranti. La loro presenza nei paesi mediterranei è rilevante: in Francia erano 7,9 milioni, in Spagna 5,9, in Italia 5,9, in Turchia 4,9, in Giordania 3,2 – solo per citare le presenze più cospicue. Nell’area mediterranea è stata sensibile la crescita dei rifugiati in conseguenza della diffusione delle guerre. Nel 2017 la Turchia ne ospitava 3,1 milioni, la Giordania 2,9 e i territori soggetti all’Autorità Nazionale Palestinese (Striscia di Gaza e Cisgiordania) 2,2. In termini di percentuale sulla popolazione residente in Palestina sono il 44%, in Giordania il 30% e in Libano il 26%. Il fenomeno delle migrazioni, quindi, non è solo questione europea, ma è questione mediterranea. I flussi della mobilità raggiungono il Mediterraneo dall’Asia e dall’Africa subsahariana. In quei continenti altre guerre e condizioni di povertà alimentano i movimenti migratori, resi ineluttabili anche dai grandi e crescenti squilibri demografici».
Quello migratorio è questione «mediterranea, ed è questione di tutte le Chiese del Mediterraneo, in modo particolare perché il mare è diventato spazio in cui si consumano tragici viaggi della speranza che sovente si concludono con la morte. Alcune stime riportano il numero di oltre 19.000 morti nel Mediterraneo tra il 2013 e il 2019. Di fronte a questa enorme tragedia non si può far finta di niente innanzitutto per un senso di umanità. Così come non si può far finta di niente di fronte alla condizione di profughi e migranti nei campi sulle isole greche o in Libia. È una domanda che riguarda tutti, chi vive a nord del mare e chi vive a sud o a est di esso. La coscienza dei cristiani, di ogni cristiano, non può non esserne inquietata e interrogata».
Ricorda il viaggio di papa Francesco a Lampedusa, i naufragi e l’esperienza dei corridoi umanitari «che garantiscono a rifugiati, a famiglie e persone in condizioni di vulnerabilità, di raggiungere l’Europa dal Libano e dal Corno d’Africa in modo legale e sicuro»; la dichiarazione di Lesbo sottoscritta dal Papa con il patriarca di Costantinopoli e l’arcivescovo ortodosso di Atene; e sottolinea che «la posta in gioco, su cui misurarsi, è alta. L’insegnamento dei Papi, a partire da Pio XII fino a Francesco, ha riproposto alla Chiesa il dovere cristiano dell’accoglienza e alla società l’appuntamento ineludibile con il migrante: “Ciò che in gioco è il volto che vogliamo darci come società e il valore di ogni vita. […] Il progresso dei nostri popoli […] dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuovere da chi bussa alla porta”».
È vero che «il fenomeno delle migrazioni suscita reazioni di paura e di chiusura, spesso alimentate ad arte e manipolate» e che «un discorso nazionalista si accompagna a tali reazioni» mettendo «in discussione l’universalità della Chiesa». E dunque «oggi si pone in modo nuovo e pregnante la domanda sulla dimensione universale del cattolicesimo in comunità tentate dalla chiusura, dall’etnicismo, dal nazionalismo, mentre si affacciano modelli di nazional-cattolicesimo».
Il professor Adriano Roccucci.
In gioco ci sono i diritti umani fondamentali. Sempre di più «vengono formandosi società esclusive, fondate sulla logica dello scarto, che colpisce i più poveri e vulnerabili. Il mondo mediterraneo è attraversato da linee di separazione che insistono sulla disuguaglianza. Sono linee mobili che la perdurante crisi economica ha contribuito a spostare allargando l’area degli esclusi. A volte queste linee diventano muri invalicabili. L’inequità, frutto delle ingiustizie e delle discriminazioni, agisce all’interno delle società nazionali». Un fenomeno che riguarda anche i Paesi dell’Europa mediterranea. «La popolazione povera o a rischio di esclusione sociale, secondo i dati Eurostat per il 2018, è superiore al 30% in Grecia, al 25% in Italia e Spagna, al 20% in Croazia e a Cipro, al 15% in Francia e a Malta», dice Roccucci. Rircordando che «la povertà e l’esclusione sociale colpiscono in modo particolare le periferie delle città o i centri urbani degradati: il tessuto cittadino si lacera e si divide in cittadini di prima categoria, inseriti nelle dinamiche del mondo globale, e periferici». Le città divengono sempre meno, come ha scritto Zygmunt Bauman, «una comunità dalla vita e dal destino in comune», e sempre più, «delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione»
Il deterioramento delle relazioni, della difesa dei diritti umani, le crescenti ingiustizie, ma anche il degrado dell’ecosistema pongono problemi cruciali alle Chiese. Per quanto riguarda l’ambiente Roccucci ricorda che il Mediterraneo «si sta riscaldando il 20% più rapidamente della media, grandi incendi sono diventati un fenomeno abituale, molte specie ittiche sono a rischio di sopravvivenza, la carenza di risorse idriche tende ad aumentare». Occorre «proteggere la nostra casa comune» e unire «tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale». La disuguaglianza «attraversa il mare tra riva nord e riva sud, ma soprattutto divide la regione del Mediterraneo e l’Africa subsahariana, che ancora oggi, nonostante la riduzione della povertà, è l’area in cui nel mondo vive il più alto numero di persone in condizioni di povertà estrema, 413 milioni, pari al 41,1% della popolazione, mentre in Europa sono l’1,5% e in Medio Oriente e in Nord Africa il 5%, una incidenza quest’ultima che dal 2011 è raddoppiata a causa delle guerre. Di fatto i paesi più poveri in assoluto (26 su 27) si trovano nell’Africa sub sahariana».
Questo grande divario «di condizioni di vita deve interrogare i governi, ma anche le società e le Chiese del Mediterraneo. Non è la stagione questa per ripensare e rilanciare con audacia, con generosità e con intelligenza, un grande impegno di solidarietà e cooperazione?».
I cristiani non possono tacere quando è violata «l’incalpestabile dignità della persona umana», come ha scritto il cardinale Bassetti. E allora «dalle comunità cristiane può arrivare un contributo decisivo alla costruzione di società inclusive, a partire dall’attenzione ai poveri».
Roccucci ricorda la Evangelii Gaudium - «Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati» –, la Popolorum Progressio di Paolo VI - «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» - don Primo Mazzolari - «Senza una conoscenza umana del povero, non si arriva alla conoscenza fraterna. Abbiamo bisogno di vedere subito l’uomo, per non cadere di nuovo nella tentazione di ipotecare la giustizia e di restringere il cuore» - per concludere con le parole del patriarca ecumenico Athenagoras. Parlando della sua esperienza di giovane diacono negli anni della Grande guerra a Monastir (Bitola), il patriarca «tracciava il profilo di una visione cristiana di speranza che è ancora attuale per le società mediterranee di questo secolo: “A Monastir ho conosciuto bene gli slavi. Ho anche osservato i tedeschi e gli austriaci. Con i francesi ho vissuto due anni. Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore. Se sono cattivi, è forse perché non hanno incontrato il vero amore, quello che non spreca parole ma irradia luce e vita. So pure che esistono forze oscure, demoniache, che a volte si impossessano degli uomini, dei popoli. Ma l’amore di Cristo è più forte dell’inferno. Nel suo amore troviamo il coraggio di amare gli uomini, e veniamo a scoprire che, per esistere, abbiamo bisogno che tutti gli uomini e tutti i popoli esistano”».