A otto anni scompare da casa e dal paesino nativo, Montemor-o-Novo, presso Evora, in Portogallo. Scappato di casa o rapito? Non si sa, e sua madre ne muore di dolore. Ricompare poi, ma in Spagna, a Oropesa, in casa di un fattore di campagna che lo tiene come un figlio. Si istruisce, lavora: potrebbe sposare la figlia del fattore. Invece, no. Se ne va e diventa soldato contro i francesi, nel Nord della Spagna. Rischia di morire, ma non per mano nemica: vogliono impiccarlo i suoi superiori, perché qualcuno gli ha rubato il bottino di guerra che aveva in consegna. Poi si limitano a espellerlo dall’esercito e lui ricompare a Oropesa, ma non per molto. Lo ritroviamo presto combattente addirittura a Vienna, assediata nel 1529 dalle truppe del sultano turco Solimano II il Magnifico, che ha già espugnato Belgrado e Buda (poi Budapest). Qui Giovanni combatte con l’esercito di Carlo V, imperatore in Europa e re in Spagna. Dopodiché è difficile seguirlo: i suoi biografi lo rincorrono di paese in paese e di mestiere in mestiere, a volte inciampando nelle date. Tanti spagnoli e portoghesi, all’epoca, vanno all’avventura delle “Indie”, per l’Oriente o per l’Occidente. E lui fa cosa abbastanza simile in terraferma: mai fisso in un posto, mai “di ruolo” in un mestiere.
Pellegrino a Compostela, pastore a Siviglia, venditore ambulante a Gibilterra e infine libraio, a Granada: ma questo non è un suo mestiere fra tanti. Lui dei libri si innamora una volta per tutte, per l’intera vita. Le pagine stampate, e insieme le illustrazioni: quella che noi oggi chiamiamo civiltà dell’immagine, ha già un pioniere cinquecentesco in lui, uomo di comunicazione fra i suoi contemporanei, tra la gente di Granada, alla quale continua a raccomandare libri e immagini, anche come sussidio per la fede: “Che nessuno si privi di un simile aiuto: le immagini, basta guardarle per ravvivare la devozione, esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi”. Ed è ben naturale che un uomo così diventi poi il santo patrono dei librai. Al momento, però, lì a Granada, va a finire in manicomio. Accade nel 1539: lui ha ascoltato un suo omonimo spagnolo, il futuro santo Giovanni d’Avila, un mistico dalla parola trascinante, ed eccolo ora dedicarsi a penitenze clamorose, inaspettate in lui, sicché lo credono impazzito. Finisce in manicomio e senza saperlo, imbocca la strada che mai più abbandonerà, fino alla morte: quella della sofferenza.
Un cristiano della fantasia che cambia nome e si dedica agli infermi
Giovanni scopre i malati più malati. Quelli di cui le famiglie così spesso si vogliono “liberare”, le vittime dell’abbandono. E arriva al punto di fingersi ancora pazzo, per rimanere lì, a vedere e capire. Di mestieri ne ha fatti tanti. E quello definitivo lo scopre in manicomio: il suo “mestiere” saranno i malati, d’ora in poi e per sempre. Si vota a loro, crea un dormitorio per i poveri, più tardi apre un ospedale. E prende anche un nuovo nome, come chi entri in un Ordine religioso: si chiama dalla nascita Giovanni Cidade o Ciudad, ed ecco ora le sue nuove generalità: Giovanni di Dio. Ma non è né prete né frate. Non fa parte del mondo di vescovi, teologi e canonisti che si preparano a rinnovare la Chiesa nelle annose sessioni del concilio di Trento, dopo la Riforma di Lutero e i distacchi. Lui appartiene a quell’altra gente, che già da tempo è al lavoro dentro il corpo della Chiesa: gli uomini e le donne della “riforma personale”, cristiani della fantasia. Lui, Giovanni, ha scoperto la sofferenza del suo prossimo, e decide per conto suo. Poi si presenta al vescovo di Granada, impegnandosi a vivere per chi soffre, insieme a quelli che vorranno fare come lui. Ne arrivano due, dapprima, e indossano come lui un saio segnato dalla croce. Altri poi sopraggiungono, e nel 1540 nasce, molto in piccolo, la Congregazione dei Fratelli della Misericordia.
Insieme, essi pensano in modo nuovo ai malati e a come assisterli, organizzando l’attività infermieristica. E i rapporti con le persone che soffrono: questa è una delle novità fondamentali che i Fratelli introducono e diffondono. Lo dirà, più di trecento anni dopo, un maestro non credente di psichiatria e antropologia, Cesare Lombroso (1835-1909): “In quanto al trattamento dei malati, Giovanni di Dio fu un riformatore, il creatore dell’ospedale moderno”. Fa sorgere un ospedale a Toledo, rischia di morire nell’incendio di quello reale a Granada (1549) per salvare i malati. E intanto si occupa di famiglie senza padre, di studenti senza soldi, di disoccupati, di prostitute. Sembra che ogni problema nuovo lo ricarichi. Ha l’ottimismo dei marinai
del suo tempo, e la fiducia che il mozzo di guardia notturna in pieno oceano esprime con la cantilena sull’ora buona che scorre e sulla prossima che sarà meglio: “Buena es la que va – mejor es la que viene”. Plasma i suoi discepoli a questo spirito, ed essi lo perpetueranno. Muore in ginocchio stringendo il crocifisso e lascia uomini della carità, armati di scienza. Moltiplicando gli ospedali, essi verranno riconosciuti via via, regolati secondo i tempi, assumendo poi il nome di Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Dio. Il terzo millennio li vede presenti in 49 stati del mondo, su continenti e isole (Filippine, Nuova Guinea, Nuova Zelanda). Giovanni di Dio non ha lasciato un libro di Regole – nemmeno un abbozzo – e solo nel 1595, decenni dopo la sua morte, i suoi sistemi di assistenza e la spiritualità dell’opera sono stati fissati nella Regla y Constituciones para al Hospital de Juan de Dios en Granata. E l’Ordine da lui creato prende per sempre il nome dalle tre parole che lui ha ripetuto fino al suo ultimo giorno: “Fatebenefratelli”.
Patrono di ammalati e ospedali
Fonda il suo primo ospedale a Granada nel 1539. Muore nel 1550 a soli 55 anni il giorno del suo compleanno, l'8 marzo. Nel 1630 viene dichiarato Beato da Papa Urbano VII, nel 1690 è canonizzato da Papa Alessandro VIII. Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 viene proclamato Patrono degli ammalati, degli ospedali, degli infermieri e delle loro associazioni e, infine, patrono di Granada.