«La riforma ha degli aspetti positivi, ma, in generale, non ci convincono alcune norme introdotte con subemendamenti, che intensificano elementi critici già evidenziati- Noi magistrati ce la metteremo tutta, ma temo che, in questo modo, non si riescano a raggiungere gli obiettivi che ci ha dato l’Europa: ridurre del 40 per cento l’arretrato delle cause civili e de 25 di quelle penali. E, naturalmente, alla fine la colpa sarà dei magistrati». Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, spiega perché è stato indetto lo sciopero e cosa si critica delle nuove norme e dei referendum.
Cosa lamentate?
«Tre capitoli principali: c’è una esasperazione della risposta disciplinare con creazione di fattispecie inutili, dannose e comunque non rispondenti ai principi di certezza dell’illecito. Inoltre la possibilità di ridurre a una sola, zero se passa il referendum, la possibilità di passaggio dalla funzione di pm a quella di giudice e viceversa di fatto separa le carriere con profili di dubbia costituzionalità. Infine i meccanismi di valutazione della professionalità. Abbiamo ripetuto fino a stancarci che non siamo contrari alle valutazioni di professionalità, anzi le vorremmo affinate, migliorate, rese più efficaci. Ma quello che fa il legislatore della riforma è tutt’altro. Secondo noi ingolfa il meccanismo di valutazione perché introduce in questo istituendo fascicolo della valutazione una tale quantità da valutare che probabilmente non sarà letto da nessuno. Si tratterebbe di valutare tutta la produzione di un magistrato per quattro anni, un materiale davvero ingente. E poi si introduce la previsione dell’acquisizione a campione dell’esito dei provvedimenti nei successivi gradi di giudizio di appello e di cassazione e questo secondo noi è un elemento del tutto estraneo ai principi di una buona valutazione».
I referendum come impattano su questi aspetti?
«Alcuni sono inutili e non avranno alcuna incidenza né positiva né negativa, come può essere quello delle firme. Per quello che impedisce il passaggio da una funzione all’altra, invece c’è uno svuotamento del significato della Costituzione che pone un unico ordine giudiziario all’interno del quale ci sono pm e giudici. Con la separazione delle funzioni prima o poi - ma molto prima e poco poi - si porrà il problema di un pubblico ministero totalmente separato dagli altri. Che ci sia un solo passaggio o nessuno ci si chiederà che ci fa un pm incardinato nell’ordine giudiziario. Allora se non ci sarà possibilità di passaggio un pm in quella collocazione sarà probabilmente soggetto a una rapida riforma. Le alternative non sono tante. O lo si lascia all’interno della giurisdizione, come ha fatto il nostro costituente nel 1948, oppure la soluzione sperimentata in altri Paesi è di sottoporlo al controllo dell’esecutivo. Questo ci preoccupa perché sarà la tappa finale di un percorso di aggiramento della Costituzione. Si dirà che un pm nello stesso Csm dove ci sono i giudici, ma senza possibilità di contatto, non ha ragione di stare lì. Ma quando lo si separerà non credo sia plausibile che resti un corpo separato indipendente. Sul piano dei contrappesi sarà difficilmente tollerabile. Se non lo si mantiene all’interno della giurisdizione, temperato dall’equilibrio difficilissimo che abbiamo sperimentato in questi 70 anni di Costituzione, il pericolo fortissimo è che sia posto sotto l’esecutivo».
Ma già adesso, in realtà i passaggi da pm a giudice e viceversa sono pochissimi. Cosa cambia?
«È vero, già con la legge Castelli i passaggi erano divenuti difficilissimi e, dunque, erano diminuiti. Adesso la legge Cartabia approfondisce e porta all’esasperazione alcuni aspetti che invece andavano rimossi. Noi siamo del parere che vanno incentivati i passaggi, non scoraggiato. Invece ci stiamo muovendo in una direzione che pone il pubblico ministero sotto il controllo politico. Se si vuole fare questo lo si faccia pure, ma almeno con un ampio dibattito a livello di respiro costituzionale, invece lo si sta facendo con legge ordinaria e con emendamenti e sub emendamenti approvati nello spazio di pochi giorni. Una riforma che intacca il sistema costituzionale meritava una discussione più ampia».
Torniamo ai referendum. Cosa succederà se verrà meno la legge Severino?
«L’abrogazione per intero della legge Severino ci sembra una soluzione non comprensibile. Si tratta del primo organico intervento di prevenzione della corruzione. SI vuole abolire l’intero pacchetto, non una singola norma. La corruzione, ancora una volta, sarà dunque fronteggiata solo a livello repressivo giudiziario. Non ci sembra ragionevole».
Sulle misure cautelari?
«Se si abolisce la possibilità della misura cautelare nel caso di pericolo di reiterare comportamenti della stessa specie non avremo strumenti per intervenire in molti casi. È vero che sarà ancora possibile utilizzarle nel caso di reati commessi con violenza, minacce o armi, ma pensiamo, ad esempio, a reati molto gravi come un peculato che non viene commesso con violenza o minaccia. O ancora alle truffe agli anziani, agli spacciatori. Ci sembra irragionevole non poter intervenire fino a sentenza passata in giudicato. E poi abbiamo il timore che, di fronte al primo caso mediatico che creerà allarme sociale, la colpa sarà del magistrato. Il legislatore interverrà creando un meccanismo ancora più rigoroso, ma che resterà quasi simbolico».
L’altro referendum riguarda la possibilità per gli avvocati di valutare i magistrati. Cosa non vi convince?
«Mi pare che da tempo gli avvocati abbiano meccanismi e strumenti molto efficaci di cui non hanno fatto uso. I Consigli degli ordini hanno la possibilità di segnalare fatti specifici per i magistrati in valutazione. Che a me consti questo potere non è mai stato esercitato. Adesso li si vuole ammettere al giudizio nei piccoli distretti, penso a Catanzaro, Messina, Reggio Calabria, Campobasso e a tanti altri. L’Italia è piena di piccoli distretti giudiziari dove ammettere gli avvocati al voto, in situazioni di stretta vicinanza e conflittualità tra magistrati e avvocati, non sopirà i conflitti ma li acuirà. Non ci sembra utile e potrebbe essere potenzialmente dannoso per un corretto esercizio delle attività giudiziarie sul territorio».
Cosa accomuna i referendum e le riforme sulla giustizia?
«Il fatto che da entrambi il magistrato viene guardato con estrema diffidenza e come se fosse il responsabile principale dell’inefficienza della macchina giudiziaria. È proprio questa filosofia di fondo che si individua e si rintraccia nella riforma – e nei referendum - che a noi non sembra condivisibile. Una riforma che si pone gli obiettivi ambiziosissimi del Piano nazionale di ripresa e resilienza - abbattere gli arretrati del 40 per cento nel civile e del 25 nel penale - vorrebbe un coinvolgimento partecipativo dei magistrati, non uno sguardo di diffidenza e il tentativo di governarli con lo strumento del disciplinare o con l’accentuazione di profili di gerarchia interna. Questo non aiuta una buona riforma, anzi crea diffidenza, crea lontananza, deresponsabilizza».
Eppure dal ministero dicono che vi hanno coinvolti, che siete stati ascoltati sette volte.
«Quando ci hanno chiamati siamo stati sempre pronti a collaborare e a dire la nostra. Ma quello che ci preoccupa sono gli interventi successivi all’ultimo confronto con la Ministra, avvenuto il 21 marzo. È stato il lavoro parlamentare successivo che ha acuito alcune criticità del testo del Governo che noi avevamo rappresentato. Avevamo detto alla Ministra che quello che si individuava nei sub emendamenti era un sostanziale peggioramento di un quadro già criticabile. Quello che temevamo è avvenuto e il fatto che ci abbiano sentito prima, se dopo si modifica in modo significativo quel testo, non può significare che dovevamo stare zitti».
Ma i processi vanno velocizzati. Le riforme non vanno in questa direzione?
«Intanto bisognava fare riforme un po’ più coraggiose sui processi. In quello penale, per esempio, si introduce la improcedibilità dell’azione penale nei giudizi di impugnazione, cioè dopo due anni devi chiudere il processo sennò muore. Ma non si sono fatte riforme significative sulla struttura del processo stesso. Come si possa, dunque, ridursi il tempo per noi resta un dato inspiegabile. Anche nel giudizio civile, secondo noi, bisognava fare un investimento più deciso e consistente sulle forme di risoluzione alternative delle controversie. Non tutto può entrare nei palazzi di giustizia, ci sono forme di contenzioso minore che dovrebbero essere riversate sulla mediazione, su forme diverse dal giudizio. Questo lo si è fatto, ma in maniera troppo poco coraggiosa e questo comporterà che la domanda di giustizia civile non verrà contenuta. Anche sul processo civile le risposte sono state timide. Speriamo invece che davvero arrivi un’iniezione di personale. Stanno arrivando i cosiddetti assistenti all’ufficio per il processo. Li formeremo e speriamo poi nel massiccio intervento finanziario sull’informatica. Tutto questo è stato programmato, ma ancora non si vede negli uffici».
Torniamo al processo penale. C’è il rischio di non arrivare a sentenza?
«In primo grado si arriverà alla sentenza. È l’appello che ci preoccupa. Le corti sono in nmero di gran lunga inferiore ai tribunali e ci sono arretrati ingenti. Pensi a Napoli, che ha 50mila processi di arretrato. Se non si cambia la struttura del processo come si fa a smaltire tutto? Noi avevamo proposto, per esempio, di mettere dei filtri all’appello passando dal cosidetto appello a critica libera a quello a critica vincolata»:
Spieghi per i non addetti ai lavori.
«Avevamo proposto che si potesse ricorrere all’appello se ci si duole di specifici vizi che il legislatore ha predeterminato. Quindi non un nuovo giudizio che si può chiedere sempre e comunque come adesso, ma solo se si individuano determinati errori nel giudizio di primo grado. E questo perché se ogni processo di primo grado deve essere ripetuto in appello, si crea per forza un imbuto e molti processi rischiano di andare al macero. Non mi preoccupano quelli di mafia e terrorismo, o quelli su cui ci sarà attenzione mediatica. Mi preoccupano quei tantissimi processi che non attirano l’attenzione pubblica, ma che sono determinanti per la vita delle singole persone. Se tutto va in impugnazione è impossibile smaltire gli arretrati. Ma se domani un processo d’appello per stalking dovesse andare in fumo la critica che si avrà sarà tutta per la magistratura. Sono soluzioni che vengono calate dall’alto senza considerare le condizioni reali della giustizia oggi. Avevamo bisogno di riforme un po’ più meditate e invece questa non lo è. Si accorciano i tempi semplicemente decidendo che i processi devono avere una durata fissata in astratto. Questo non sempre sarà possibile. E poi avevamo proposto anche una seria depenalizzazione per reati che non creano allarme sociale. Sarebbe un intervento utile, ma temo che nessuna forza politica lo proponga perché ha dei costi elettorali. Ovviamente ce la metteremo tutta per evitare che i processi vadano in fumo, ma comincia a essere un problema serio».