La memoria del Teatro alla Scala? Non la si trova nei libri o sui giornali: ma negli occhi, nei gesti, nei racconti e nell’entusiasmo di Franco Fantini, classe 1925, entrato nell’orchestra del Teatro a 17 anni e poi storica “spalla” per decenni. La “spalla” è il violino più vicino al direttore d’orchestra, quello che guida tutto il gruppo degli archi ed a volte interpreta i passaggi solistici. Fantini mente sui suoi 90 anni: vede e sente perfettamente, è scattante, attivissimo, ricorda tutto. In Teatro lo hanno festeggiato ad una replica di Aida: ed anche il direttore Zubin Metha è andato a salutarlo. Il segreto della sua vitalità? “Tutte la mattine suono uno dei miei 3 strumenti e studio”, ci dice mostrando la sua stanza della musica: con la sedia che la Scala gli ha regalato e sulla quale ha lavorato per decenni, gli spartiti, il leggio, i manifesti, gli autografi. Ma non basta: fa ancora concerti, anzi dei veri concerti da camera. Senza il pubblico però.
“Sono nato in una casa di ringhiera, qui a Sesto San Giovanni (periferia di Milano, ndr); dieci giorni dopo è nata la bambina di una vicina. La mamma non poteva allattarla e così ha chiesto alla mia di farlo. Io ho iniziato presto a suonare il violino, perché mio padre era un dilettante dotatissimo. Lei ha imparato il pianoforte, ma non da musicista. Ci siamo persi di vista e ritrovati dopo 40 anni. Ora suoniamo insieme, e con altri nostri coetanei facciamo quartetti e quintetti, trovandoci nelle nostre case”. La musica è stata tutta la sua vita, e lo sanno bene le sue figlie alle quali è legatissimo e che vorrebbero che scrivesse un libro: “Ma io rispondo alle domande, non saprei raccontare. Posso dire che quando sono entrato in orchestra ed ho cominciato a suonare ho avuto la sensazione che ogni opera fosse un viaggio. Ricordo quanto mi piaceva immergermi in Wagner: 5 ore di godimento. E’ andata avanti così per tutta la vita. Una volta lavoravamo 7 giorni alla settimana”.
Franco Fantini con il suo aliante
Ovvio che abbia lavorato con tutti i registi, i cantati e soprattutto direttori della storia recente: “De Sabata per me è stato il più grande di tutti. Aveva un vasto repertorio e seguire il suo gesto era meraviglioso. Ci fu un periodo in cui si era messo in testa che dovevamo guardarlo fisso negli occhi. Per tutta la durata di un’opera mi controllò. Solo alle ultime battute io volsi lo sguardo: e lui mi fece una smorfia di disapprovazione. Un’altra volta attaccò la Butterfly ad una velocità folle. L’orchestra andò fuori tempo, e lui rise divertito”. L’ammirazione per i grandi degli inizi, “come Furtwaengler, il cui gesto era confusissimo eppure lo seguivamo senza problemi, un mistero!, o “gli italiani Guarnieri e Votto” non gli fa dimenticare i personaggi più recenti: “Carlos Kleiber è stato il direttore forse più ammirevole dopo De Sabata. Lui era sensibilissimo, dominato dall’ombra del padre, il grande Eric. Ma era unico. Ho alcune sue lettere, perché mi scriveva per far da tramite con il Teatro”. E Muti ed Abbado? “Non si possono fare paragoni fra i due direttori. Così diversi. Abbado non ha mai cessato di migliorare, di perfezionarsi. Muti per noi era uno spettacolo durante le prove: era entusiasmante lavorare con lui”.
E la nuova generazione? “Oggi i giovani orchestrali sono molto bravi, e mediamente più bravi di quelli che componevano le orchestre mezzo secolo fa. I direttori sono preparati, dotati. Tutto viene bene: ma spesso manca….quella qualità in più nel risultato”. E’ vero che è stato lei ad andare a salutare per l’ultima volta Herbert von Karajan, sperando che tornasse a dirigere alla Scala? “Andai a Berlino io col sovrintendente Badini. Chiesi al loro primo violino di portarmi nel camerino del maestro e gli consegnai una lettera con le firme di tutta l’orchestra. Mi ringraziò ma allargò le braccia”. Non fu certo il solo addio: “No, ricordo la morte di Dimitri Mitropoulus, un altro mito. Era tanto corpulento quanto buono, un santo. Un mattino ci salutò ad uno ad uno, e noi non capivamo perché. Iniziò la prova, ma dopo poche battute si accasciò privo di vita. Venne chiamato Scherchen a dirigere al posto suo, ma non se la sentì per la troppa emozione”. Sfilano nelle memoria di Fantini spettacoli e personaggi, compreso un compositore al quale disse “se portassi da casa una pentola ed un cacciavite il risultato non sarebbe diverso dalla sua musica”. E potrebbe parlare ore: di musica ovviamente, e di persone. Ma Franco Fantini ci lascia con un’altra sua passione: il volo a vela. Accanto alle foto con Toscanini e Stehler c’è il brevetto e ci sono gli scatti col suo aliante. “Ma lo sa che ho volato per 5 ore e mezzo consecutive! Fantastico. Ho anche portato sull’aliante il mio violino. Non sono riuscito a suonarlo perché non c’era spazio per l’archetto. Ma qualche pizzicato l’ho fatto!”