È la prima volta che Selima Giuliano,
la più piccola dei tre figli
di Boris, accetta di parlare di suo
padre con un giornale. «Eravamo
una famiglia felice. Papà
tornava tutte le sere, mentre mamma
insegnava solo saltuariamente e
quindi passava molto tempo con noi.
Di colpo ci siamo ritrovati soli, in una
città che non era la nostra, con mamma
che è stata costretta a lavorare davvero.
Dal giorno della morte di mio
padre fino all’adolescenza nella mia
mente c’è il buio più totale».
Aveva appena sette anni Selima,
quando la mafia le tolse il suo adorato
papà. «Eravamo in vacanza e apprendemmo
la notizia alla radio. Ricordo le
volanti a sirene spiegate che vennero
a prenderci per riportarci a Palermo.
Mia madre e mio fratello Alessandro
rimasero lì per la camera ardente e i
funerali, mentre io e mia sorella Emanuela
fummo portate a casa di amici.
Sul momento pensavamo che papà
fosse ferito. Poi, quando rivedemmo la
mamma, ci disse che non c’era più».
Trentasette anni dopo, è voluta
andare sul set della fiction di Ricky
Tognazzi che ricorda Giuliano. «Giravano
la scena dell’incontro tra papà e
il boss Stefano Bontate a Villa Niscemi.
Alla fine, ho incontrato Adriano Giannini ed entrambi ci siamo commossi:
lui perché si è trovato di fronte me e
non la bambina che mi interpreta e
io perché, anche se non assomiglia a
papà, era “truccato” come lui, con i suoi
baffoni». La fiction le è piaciuta «perché,
pur con le inevitabili licenze di un
racconto televisivo, fa emergere bene
le sue qualità di poliziotto, ma anche la
sua eccezionale umanità con i colleghi
e con noi in famiglia».
Il capo della Squadra mobile di Palermo
che vedremo in Tv è un uomo
dalla vita nettamente divisa in due:
Giorgio (il suo primo nome) in famiglia,
marito e padre affettuoso e sempre
sorridente; Boris (il suo secondo
nome) sul lavoro, lo “sbirro” tenace e
coraggiosissimo. «Era proprio così»,
conferma Selima. «Ricordo papà a
casa che si metteva a quattro zampe
per farci giocare a cavalluccio. Oppure
mentre ci raccontava delle storie
bellissime di cui ogni volta cambiava il
finale, inventandoselo sul momento. E
poi lo rivedo mentre suona la chitarra.
Aveva una grande passione per il jazz
che trasmise a noi».
Selima è un nome arabo che significa
“pace”. «Fu un modo per mio papà
di ricordare la sua infanzia che in buona
parte trascorse in Libia con i fratelli
perché suo padre era un ammiraglio
della Marina. A mia madre questo
nome non piaceva tanto: avrebbe voluto
chiamarmi Giorgia, per ricordare
lui. Ma papà la spuntò e mia madre
ottenne solo che questo fosse il mio
secondo nome. In compenso, ora mio
figlio si chiama Giorgio».
Il fratello Alessandro, anche lui
da sempre riservatissimo, ha seguito
le orme del padre, come capo
della Squadra mobile di Milano. Da
pochi giorni, a 49 anni, è diventato
questore di Lucca. Subito dopo la nomina
ha commentato: «Non posso
non pensare a mio padre, morto alla
mia età. In tutti questi anni è stato la
mia inarrivabile stella polare e l’ho
sempre sentito vicino».
Sul significato della parola “memoria”,
la sorella Selima ha idee molto
precise. «Recentemente mi è capitato
di parlare di mio padre nelle scuole.
Mi ha dato molto più quest’esperienza
che 35 anni di commemorazioni istituzionali.
Del resto a Palermo, specie
d’estate, praticamente c’è una commemorazione
al giorno». Come ha raccontato
benissimo Pif nel suo film La
mafia uccide solo d’estate.
«Davanti ai luoghi degli omicidi si
ritrovano sempre le stesse persone, parenti
delle vittime, amici e rappresentanti
delle istituzioni con la loro fascia
tricolore che sotto un sole cocente ricordano
mio padre, Ninni Cassarà, il
giudice Chinnici...», continua Selima.
«È inevitabile che con il passare del
tempo la forma prevalga sempre più
sulla sostanza. Invece, negli occhi dei
ragazzi che ho incontrato, ho visto
davvero una gran voglia di sapere
chi è stato mio padre e perché è stato
ucciso. La memoria quindi va fatta
prima di tutto nelle scuole. Ma anche
una fiction fatta bene, che si rivolge a
milioni di persone, credo possa essere
molto utile».
Gli assassini di Boris Giuliano, i
mandanti e il killer Leoluca Bagarella,
sono da molti anni in carcere, condannati
all’ergastolo. «Nei loro confronti
provo una totale indifferenza. Non
sento rabbia, ma nemmeno il senso
religioso del perdono», aggiunge Selima.
«Credo solo fortemente nella giustizia».