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giovedì 30 marzo 2023
 
REPORTAGE/1
 

Siria, tra macerie e voglia di riscatto: viaggio in una tragedia dinenticata

16/03/2023  La prima parte del diario di Mario Marazziti, della Comunità di Sant'Egidio. Emozioni forti dopo l'incontro con una terra che ha vissuto 12 anni di guerra.

Una fotografia panoramica di Damasco, scattata qualche mese fa. Reuters.
Una fotografia panoramica di Damasco, scattata qualche mese fa. Reuters.

Sono 114 chilometri, metà in Libano e metà in Siria, da Beirut a Damasco. Due ore e mezza con i checkpoint, i timbri, uscita dal Libano, l’ingresso nel Paese dove i voli occidentali non atterrano. Paesaggio di di roccia, prati e montagna, prima di scendere verso la Siria. Tra i due confini, 8 chilometri brulli di terra di nessuno, terra intermedia. Poi il tempo per ritirare il visto, nell’androne con file di frontalieri siriani e libanesi e le foto grandi e piccole di Bashar Assad in corrispondenza di ogni fila. Poi, finalmente, la Dimashq Beirut arriva a valle e appare Damasco: era già una città antica al tempo di San Paolo, che da lì è fuggito in una cesta. Quell’autostrada attraversa il Monte Libano, sale a 1400 metri, è normale che ci sia neve, e da lì si guarda di sotto alla valle della Bekaa, prima di attraversare il confine a Masnaa. È un confine che c’è e non c’è. Non c’era, perché la Siria arrivava fino al mare, a Tiro e Sidone, che è stato avvertito come innaturale dai siriani al punto che dopo molti decenni la prima visita ufficiale in Libano l’ha fatta sessant’anni dopo l’indipendenza del Libano da Bashar Assad, nel 2002. Ma anche il Grande Libano che arrivi fino a Damasco e Palmira è più di un luogo della mente. Di certo è una terra con due nomi e una non-frontiera siro-libanese permeabile, attraverso cui libanesi e palestinesi trovavano rifugio nei molti anni delle molte guerre libanesi. E adesso i siriani, in direzione inversa.

Il confine che c’è e che non c’è si è spostato molte volte. Passava per Zahle. Su quella strada, in territorio libanese, si vede ancora una grande foto di Bashar e dell’ex ambasciatore siriano in Libano: testimonia il fatto che per i libanesi la Siria ha smesso di essere il pesante vicino delle ultime guerre, con da un lato la Siria e dall’altro Israele. Ci sono anche foto di capi Hezbollah celebrati nei poster scoloriti come martiri. Si deve superare il Monte Libano e si vede in lontananza il Monte Hermon, prima di arrivare al confine di adesso, a Masnaa. L’ultimo paese prima del confine, Chtaura, accoglie con money exchange a tutti e due i lati della strada. È lì che si ottiene un cambio in pound siriane più favorevole. E proprio la carta moneta racconta la Siria che ci aspetta. Ancora prima di arrivare. La banconota più grande è da 5000. Fino a un anno fa per un dollaro ce ne volevano 3000. Adesso 7000. Un chilo di pane un anno fa costava l’equivalente di 17 centesimi di dollaro, adesso è come 6 dollari. È aumentato di 35 volte. Per questo il WFP stima in Siria 12 milioni di abitanti, su circa 18 rimasti, con problemi di scarsità alimentare. Il risultato è che per l’equivalente di 1000 dollari ci vuole uno zainetto per portare quelli che saranno forse due chili di carta ben stampata.

Alle riunioni diplomatiche a Beirut l’ambasciatrice Nicoletta Bombardiere, dinamica e competente, contenta della nostra missione umanitaria e disponibile, si muove nelle maglie che si sono appena allargate per motivi umanitari nell’embargo decretato da Caesar. È questo il nome del duro provvedimento dell’amministrazione USA ha approvato il 20 dicembre 2019, pochi giorni prima dell’assalto a Capitol Hill. Nei sei mesi in cui l’amministrazione Trump ha fatto più esecuzioni capitali nel braccio della morte che nei precedenti 150 anni. Ma Caesar è ancora lì. Embargo assoluto, non solo personale. Fin quando uno spiraglio per motivi umanitari è stato aperto, dopo il terremoto e dopo molti appelli, anche della Comunità di Sant’Egidio.

A metà febbraio l’Italia ha dato un segno di umanità e di intelligenza politica inviando per prima due cargo aerei militari con ambulanze e aiuto a Beirut e, poco dopo, mentre ormai eravamo già in Siria, la nave San Marco, quella nave da guerra ma pensata per la pace, per l’assistenza sanitaria, il trasporto di cucine, ospedali da campo, generatori di corrente e container, con i fondi della Cooperazione. L’ambasciatore Dantuono, l’incaricato d’affari per la Siria, che vive metà a Damasco e metà a Beirut conosce e ama questa terra, aiuta e permette di aiutare anche se l’ambasciata non è completamente riaperta.

È una emozione forte, tornare in Siria. È la prima volta dal 2012, dopo il primo anno della crisi e della guerra, quando erano già cominciati gli attacchi su Aleppo e su Damasco. Nell’anno precedente avevamo lavorato al maggiore tentativo di evitare la carneficina e l’escalation militare che poi c’è stata, attraverso la costruzione di una Piattaforma dell’opposizione interna – e non solo degli espatriati – per un negoziato politico e non militare con il regime. Erano divisi su molte cose, con il governo, ma uniti dalla consapevolezza che altrimenti la Siria si sarebbe smembrata e il prezzo da pagare proibitivo per tutti. Quel negoziato offriva all’Unione Europea, che chiedeva più democrazia ma non l’internazionalizzazione della guerra, una piattaforma dell’opposizione siriana credibile. Ma è allora che a Doha i paesi del Golfo, gli USA e subito la Francia hanno riconosciuto come “governo legittimo all’estero”, una assemblea già a maggioranza islamista. Si bruciò un lavoro di un anno, fatto con la Comunità di Sant’Egidio. Una grande occasione persa. Eravamo molto prima dei 700.000 morti e dei sei milioni di profughi fuori dal Paese e dei 7 milioni di sfollati interni di adesso: ma l’agenda del mondo era un’altra. E poi è sfuggita di mano, come tutte le guerre. Anche le previsioni erano sbagliate. Assad è sempre al comando, mentre sono cambiati tre presidenti americani e due francesi. In Siria è ancora più forte la presenza e l’influenza di Russia, Iran e hezbollah libanesi. La Turchia è fortemente presente e gli islamisti ne traggono vantaggi, mentre l’Unione Europea è diventata un’assenza da una presenza decisiva che era. Un altro pezzo di guerra fredda e una ferita che ha scaricato anche sull’Europa un mare di profughi indebolendo la coesione sociale, Mentre sono cresciuti i sovranismi di vario tipo. Non è un bilancio di cui essere fieri per l’Occidente. E un dolore e un orrore congelati, senza iniziative all’orizzonte.

Bambini di strada a Damasco in una foto scattata il 22 maggio 2021. Reuters.
Bambini di strada a Damasco in una foto scattata il 22 maggio 2021. Reuters.

Che Siria è quella che sto per incontrare dopo dodici anni di guerra?

Il Governo controlla il 60 per cento del territorio, da Sud, Damasco, a Nord, oltre Aleppo, fino al confine turco, con l’80 per cento della popolazione. A Nord Ovest, la zona di Idlib, è però controllata esercito turco, dai qaidisti islamici e da ribelli non jihadisti, minoritari, e curdi filo-turchi e filo-americani. A Nordest, la striscia confinante con l’Irak, c’è una amministrazione curda, le Forze democratiche di sicurezza. E dal 2015 900 soldati americani e l’aviazione USA che garantiscono curdi e turchi, ma con i curdi controllano tutta l’estrazione delle risorse del sottosuolo siriano, gas e petrolio. Venduto ai vicini irakeni, e cioè a un paese a guida attualmente a guida sciita dagli USA. Un altro dei boomerang e dei paradossi di un’operazione di export di democrazia che per vent’anni non ha restituito la pace piena all’Irak, ma l’ha avvicinato all’Iran. Poi una parte di quel gas siriano viene rivenduto a gocce alla Siria, a prezzi maggiorati. Il resto, dall’Iran, scarsamente raffinato. Le raffinerie sono vecchie e insufficienti, e si vede dallo strato di caligine che ricopre le zone abitate. Alla nuova raffineria di Deir el-Zor lavorano, con profitto, i russi. Ci guadagnano in tanti sulla Siria, non i siriani.

Le conseguenze della guerra, dell’isolamento internazionale, dell’embargo si capiscono lungo la strada. Gruppi di motociclette portano due bombole di gas azzurre o tre, come fossero un somaro. A salire e a scendere. Oppure taniche di benzina e fusti di olio. E’ il grande commercio tra Libano e Siria. Cose che scarseggiano sia in Libano, ma di meno, che in Siria. E i prezzi del mercato informale vanno a volte a vantaggio dei libanesi e a volte dei siriani. Non è contrabbando, ma è economia di guerra. I contrabbandieri veri, quelli del mercato della droga, il captagon, che arricchisce alcuni siriani e molti libanesi, giordani e sauditi, fanno altre strade.

Gli ultimi chilometri per lasciare il Libano sono su una strada buona con i lati innevati. Fa freddo. Dopo il check point libanese, otto chilometri di terra di nessuno, qualche militare ai lati, e poi arriva il primo cartello blu, Welcome to Syria. Un primo poster di Assad, quello ufficiale, con la bandiera, a tutta grandezza, e poi un altro con il presidente in borghese, un vestito chiaro, estivo, senza cravatta e camicia azzurra, sorridente. Sotto di lui, colorate, le cinque lettere di un grande Lego, la S rossa, la Y blu, la R gialla, la I bianca e la A verde chiaro. È accanto al Bella Luna, il ristorante italiano chiuso, che sta subito prima dell’hangar dell’Immigrazione e degli uffici visti e passaporti di Al Jdedeh. Scendendo, quando si arriva a Damasco, il tempo cambia. Niente più nuvole, fra poco è il tramonto, e arrossa le case, appoggiate sul monte Qasion, che fa da quinta alla solita, splendida Damasco. Quella che ricordo. Dalla finestra, prima di sera, posso vedere, a filo, un minareto, la cupola di una moschea, qualche parabola TV, e la cuspide del tetto di una chiesa, con la croce

 
 
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