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venerdì 04 ottobre 2024
 
storie
 

Quando il genitore va in "burnout": ecco come uscirne

04/04/2024  Carlotta Cerri, moglie di Alex e mamma di Oliver ed Emily (in copertina), racconta la fatica di essere madre e di lavorare con successo. Ha vissuto una crisi profonda ed è riuscita a venirne fuori: «Mi sono aiutata»

Educatrice di formazione montessoriana e fondatrice di La Tela, piattaforma di aiuto alla genitorialità, Carlotta Cerri ha 38 anni, è sposata con Alex e insieme hanno due figli: Oliver ed Emily, rispettivamente 9 e 7 anni. Autrice di “Cosa sarò da grande. Accompagnare i nostri bambini alla scoperta della loro strada” (Vallardi), nel podcast “Educare con calma” racconta anche una fase di burnout che ha attraversato.

Quali sono stati gli elementi, i fatti, le circostanze che l’hanno fatta andare in burnout?
«Sono in grado di lavorare concentrata per giorni o settimane senza sentire davvero la fatica che ti forza a smettere o prenderti una pausa, tendo a voler finire un lavoro piuttosto che lasciarlo a metà, anche se significa lavorare di notte. Prima di diventare genitore vedevo questa mia capacità quasi come un “superpotere” e credo che, in parte, sia alla base del mio successo nelle carriere che mi sono creata, prima con la mia scuola di lingue a Marbella e negli ultimi 10 anni con latela.com. Eppure, quando sono diventata madre qualcosa è cambiato: il tempo per me. Quando lavoravo senza figli, dopo il lavoro mi sedevo sul divano a guardare una serie tv o uscivo a cena con mio marito o un’amica o andavo a una lezione di ballo (tutti modi in cui riesco a scollegare la mente); ora dopo il lavoro mi ritrovavo in un ambiente rumoroso con piccole persone che mi toccavano continuamente e chiamavano “mamma” a ripetizione. Non ho notato davvero quanto «non scollegare più» pesasse sul mio benessere mentale finché nel 2019 abbiamo deciso di vendere tutto e iniziare a viaggiare a tempo pieno: le lezioni di ballo (una vera e propria terapia per me) erano ora un appuntamento sporadico, il viaggio era uno stile di vita più solitario e meno prevedibile e, cambiando spesso fuso, non sempre le mie amiche erano a una telefonata di distanza. Eppure continuavo a lavorare allo stesso ritmo e, anzi, in quel periodo iniziai il mio podcast “Educare con calma” che è presto diventato numero 1 in Italia nella sua categoria e ha fatto crescere molto il mio business. Dopo un anno e mezzo di questa vita, un giorno ero a computer e la vista si offuscò, iniziai ad avere forti emicranie, ma all’inizio non ci feci molto caso: “Devo ricordarmi di mettere gli occhiali quando lavoro a computer”, pensai. Provai a usare le strategie che usavo di solito per scollegare, ma non funzionavano: al mattino non volevo scendere dal letto; mi tremavano le mani sulla tastiera mentre lavoravo; le emicranie mi abbandonavano raramente; faticavo a dormire di notte; non avevo pazienza e scattavo in continuazione per ogni rumore o comportamento dei miei figli o di mio marito. Non a caso spesso si rappresenta il burnout come un fiammifero spento, consumato». 

Quanto è durato questo periodo e come l’ha affrontato?
«Non saprei definire una durata precisa, perché non so nemmeno quando sia iniziato davvero: sono convinta che un burnout inizi ben prima dei primi sintomi, quando decidiamo di trascurare i campanelli d’allarme e questi sono diversi per ogni persona: il mio più grande, come ho scoperto negli anni, è non avere voglia di lavorare, perché io amo il mio lavoro e non c’è giorno che mi sieda a computer senza gioia per quello che sto per fare. Forse ignorai i campanelli d’allarme anche perché non conoscevo davvero il burnout: ecco perché penso sia importante parlarne per saperlo riconoscere e soprattutto imparare ad ascoltarsi per saperlo prevenire».

Chi e cosa l’ha aiutata a uscirne?
«Io. Io mi sono aiutata. Credo davvero che se non scegliamo di aiutarci noi, nessuno arriva a farlo per noi. Aiutarmi ha significato prima di tutto ascoltarmi. Ci tengo a sottolineare che parlo di me e della mia esperienza, perché ogni stile di vita è diverso: io sono il CEO della mia azienda e allora sceglievo solo io le scadenze; chi lavora per terzi potrebbe non avere quel “lusso”, ma a volte potrebbe anche non avere scelta. In quella occasione, stavo lanciando la guida per famiglie sull’educazione sessuale “Come si fa un bebè” e, nonostante fosse quasi pronta e mancasse solo la «spinta» finale – qualche giorno e notte di lavoro intenso –, per la prima volta nella mia vita capii che non potevo fare altro che fermarmi. La mente e il corpo non rispondevano e fu uno stop forzato. Lo pubblicai settimane dopo la data che mi ero prefissata e, con mia sorpresa, andò bene anche così. Anzi, quel burnout delineò proprio una delle nostre regole aziendali, oggi che le scadenze le decido insieme a mio marito e al mio team: pubblichiamo i prodotti quando sono pronti, siamo noi a controllare le scadenze, non loro a controllare noi. Questo ci aiuta a mantenere un ambiente aziendale su misura dell’individuo invece di richiedere agli individui di adattarsi (spesso inumanamente) al ritmo aziendale. Infine, aiutarmi ha significato parlarne, togliermi l’armatura. Come scrivo nel mio libro “Cosa sarò da grande”, credo che la verità sia come una chiave che apre la gabbia: finché ci vergogniamo a sentire e comunicare le nostre emozioni scomode e vulnerabilità, non possiamo iniziare ad aiutarci. Oggi, ogni volta che riconosco i campanelli di allarme (da allora si sono ripresentati prepotentemente altre due volte), ho fatto queste due cose con intenzione: ho rallentato (dalla quinta marcia alla prima) e l’ho comunicato. Queste due scelte mi hanno aiutata a non oltrepassare la soglia del burnout anche in momenti delicati e intensissimi, come è stata la stesura del libro nell’anno in cui la mia azienda è cresciuta del 150%».

Quali consigli e suggerimenti darebbe ad altri genitori per prevenire il burnout?
«La cura di sé. Oggi giorno noto che spesso si ha un concetto distorto della cura di sé: una donna, per esempio, potrebbe pensare che sia truccarsi, farsi la tinta o la ceretta, fare una dieta… azioni con una motivazione estrinseca, che arriva dalle aspettative della società. Per me la cura di sé significa fare azioni che aumentano il mio benessere mentale ed emotivo, al di là di ciò che si aspettano gli altri. Da anni ho scelto di nutrire l’essenza (ciò che fa stare meglio me) più dell’apparenza (ciò che mi farebbe stare meglio agli occhi degli altri): un automassaggio al viso ogni mattina; prendere vitamine per rafforzare i capelli. Credo che rivedere la narrazione sulla cura di sé aiuti a individuare le proprie priorità e andare nella direzione del proprio (vero) benessere emotivo, mentale e fisico, che a lungo termine permette di conoscersi e ascoltarsi di più, fondamentale anche nella prevenzione del burnout. Ecco perché nel mio percorso per educare a lungo termine dedico a questo parecchie lezioni: solo quando ci prendiamo cura di noi possiamo prenderci cura anche della famiglia, perché non possiamo dare agli altri qualcosa che non diamo prima a noi stessi, incluso pazienza, calma, comprensione, accoglienza… le basi dell’educazione che promuovo».

 
 
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