Si può e forse si deve leggere al contrario la notizia degli sprinter dopati, tre della Giamaica e lo statunitense Tyson Gay che rappresenta il meglio fuori dell’isola magica ed è pure quello che si è subito assunto tutte le colpe, senza nessuna scusa, nessuna fuga verso la tesi comoda e frequentatissima dell’assunzione inconsapevole di sostanze vietate legata a prodotti alimentari particolari. Lettura al contrario, andando cioè in direzione opposta allo sdegno a orologeria e allo stupore ingenuo. Ricordando che i giamaicani colti in fallo sono il grande Asafa Powell e i pur sempre auromedagliati olimpici (staffette) Nesta Carter uomo e Sherone Simpson donna.
La prima lettura rovesciata può partire da una domanda: perché certe scoperte avvengono soltanto adesso, dopo tanti controlli a vuoto, quando da tempo si sospettavano pratiche illecite in un mondo,quello giamaicano, dove i fenomeni fioriscono facilmente ma anche dove la droga è addirittura interpretata come additivo “buono” per fare musica forte e godersi al massimo (non al meglio, noooo) la vita? Diciamoci pure che da tempo ci chiedevamo come mai risultavano puliti questi atleti pieni di elettricità, ricchi di follia, sempre sopra le righe. Sempre prodotti in grande quantità. E frequentavamo l’idea di un vaso sempre più colmo.
La sconda lettura rovesciata parte anch’essa da una domanda. Possibile che i rivali ma anche gli amici di Usain Bolt, il sublime interprete dei 100 e dei 200 metri, siano sotto accusa e lui no? Lui che sta agli altri come Bob Marley ai pur bravi altri adepti del reggae? Ci sono perplessità lecite, quasi obbligatorie. Più che mai dopo che il caso di Lance Armstrong ha detto che i controlli spesso possono essere fasulli, taroccati, nel migliore dei casi approssimativi ed incompleti.
Ma al di là del gioco di queste domandine/domandacce intriganti esiste la domanda cosmica: possiamo ancora fidarci dello sport, delle sue proposte di campioni, di primati, di graduatorie, di spettacolo? Il fattto che questa cosmidomanda non sia nuova significa che essa diventa sempre più inevitabie, quasi necessaria, doverosa, sennò ci saremmo stufati di porla.
Una risposta nostra personale è questa: non possiamo fidarci, no, ma dobbiamo cercare di goderci lo stesso lo sport, cogliendo degli spettacoli che offre l’aspetto umano, quando esiste, così come quello scenografico. Se la chimica non stravolge troppo i valori, se i suoi fruitori riescono a rimanere sempre esseri umani accostabili e didascalici, da ammirare anche se non sempre da proporre, se conosciamo lo sport in modo tale da sapere almeno operare alcune scremature, si possono salvare molte belle cose. Nel caso di Armstrong ci siamo persino concessi, personalissimamente, il paradosso estremo: se davvero ci sono prodotti che permettono ad uno gravemente malato di cancro di riprendere, una volta guarito, la carriera, e di vincere, di stravincere, di recitare per dieci anni una impeccabile commedia, di conservare tutta la calma e la serenità del mondo, si mediti sul se e sul come passare dosi di questo prodotto a vecchi e bambini…
Comunque avanti adesso con questi nuovi casi. Non che se ne avvertisse il bisogno, ma davvero c’era una calma troppo piatta, e dunque infida, nel mar di Giamaica. Non bastava più, per l’esercizio dello sdegno facile, il solito povero ciclismo (che sta per concedersi altri sacrifici umani sulla base di controlli nuovi di liquidi vecchi, però con il Tour 1998 non strappato via al povero Pantani: così almeno pare). D’altronde da sempre scriviamo che gli sport senza doping sono quelli senza antidoping, e non è un caso che stiano nascendo vastissime perplessità sul (non) antidoping del calcio.