Il film di Tom McCarthy, Il caso Spotlight, vincitore dell'Oscar nel 2016 come miglior film, vuole dichiaratamente ridare alla carta stampata e ai giornalisti-demiurghi l’autorevolezza e la poesia faticosa del loro lavoro. Il film è un inno al giornalismo investigativo, alle sue regole e ai risultati di cui è capace.. L’opera cinematografica ripercorre le trame di un’inchiesta realizzata tra il 2001 e il 2002 da un team di giornalisti del Boston Globe, che fece conoscere prima alla città e poi al mondo intero gli abusi sessuali su minori commessi da circa 90 sacerdoti cattolici e mai denunciati dalle autorità ecclesiastiche bostoniane. L’inchiesta fu premiata col Premio Pulitzer.
Il tema del film – drammaticamente scottante dal punto di vista sociale, politico e religioso – esigeva una cornice semantica in grado di reggere la gravità dei fatti. Era necessario allora raccontare e mettere in scena un modo “antico” e genuino di fare giornalismo, per dare credibilità alla ricerca della verità, che non si nasconde nella memoria di un data base dove basta fare un clik per portarla in evidenza. Nella redazione del Boston Globe i computers rimangono in secondo piano. I data base sono gli archivi cartacei, conservati ancora in faldoni nello scantinato della redazione del quotidiano. La cornice non soltanto indica un metodo, ma testimonia la qualità del lavoro giornalistico, portato avanti dal gruppo redazionale Spotlight, letteralmente “faro di luce”. Questi giornalisti sono chiamati così forse perché sono i migliori. Forse perché sono capaci di gettare luce su fatti di cronaca molto oscuri. Potrebbero essere moderni cavalieri dell’Apocalisse, che scatenano la “fine del mondo” nella vita della Chiesa Cattolica di Boston e di tutti gli Stati Uniti. In realtà lavorano sottovoce ma con tenacia, senza fretta ma con determinazione e coraggio. Non sono animati da vecchi rancori o da pregiudizi religiosi. Alcuni di loro forse sono ( o sono stati) di religione cattolica. Nessun intento scandalistico e nessuna ricerca dello scoop a tutti i costi. Sembrano un po’ fuori moda, ma sono veri. Apparentemente grigi, come i colori sottotono della pellicola. Penna e taccuino sono gli strumenti su cui viaggia e prende forma gradualmente la loro inchiesta su ciò che è veramente accaduto e su come possa essere accaduto. Sono strumenti “primitivi” e poveri, come pala e piccone, che sottolineano l’onestà e l’umiltà della ricerca dei fatti, dove conta molto la mediazione dell’intelligenza e la sensibilità dei ricercatori.
C’è il modello cinematografico di Tutti gli uomini del presidente, film culto sul potere della stampa, uscito nel 1976 sul caso Watergate, cui McCarthy è quasi obbligato a far riferimento. Ma il regista se ne distanzia perché qui nulla si tinge di thriller e di giallo. Semmai prevale il nero dello sconforto e del dolore. Qui non c’è nessuna “gola profonda” che nella penombra racconta i fatti, ma solo pazienti contatti personali, interviste dirette ai testimoni e ai “sopravvissuti”, accurate consultazioni dei documenti, attraverso cui il pool di giornalisti ricrea gli avvenimenti e porta a galla verità inconfessabili e responsabilità pesanti come macigni. L’unico personaggio senza volto è quello di un prete-psicologo, che comunica a Spotlight, in voce registrata, i dati di sua conoscenza.
Tutto ha inizio con l’arrivo di Marty Baron come neo-direttore del quotidiano Boston Globe. Egli, di origine ebrea, incarica i giornalisti che fanno parte della redazione Spotlight di indagare sulla notizia di cronaca, di qualche anno addietro, relativa a un prete accusato di abuso sessuale nei confronti di giovani parrocchiani. Notizia di cronaca rimasta in cronaca, colpevolmente sottovalutata dal Boston Globe. La direttiva rivolta allo staff investigativo è di scavare negli archivi. Di non fermarsi al singolo caso, ma di andare a fondo in tutte le direzioni, perché – è convinzione Marty Baron – bisogna sconfiggere il sistema. Pacata ma decisa è la svolta che il direttore ebreo imprime alle indagini, suggerita solo dal dovere professionale ed etico di far emergere la verità. Come pacata e decisa è la visita che egli fa all’arcivescovo Bernard Law di Boston, allorquando il direttore comincia a rendersi conto delle gravi implicanze e delle responsabilità verso cui porta l’inchiesta dei suoi giornalisti. La risposta del Cardinale è di irritante sufficienza, anzi nasconde il tentativo goffo di proporre a Marty Baron una specie di “santa alleanza” tra il suo giornale e la Chiesa, con evidenti vantaggi per entrambi. Il Globe, afferma senza mezzi termini il direttore, deve camminare con le proprie gambe e non ha bisogno dell’appoggio della Chiesa. E allora l’inchiesta va avanti, anche se il 53% dei lettori del Boston Globe sono di religione cattolica.
La redazione di Spotlight si accorge ben presto che deve fare luce su una “scena del crimine” complessa e talmente estesa da far paura. Gli incontri con l’Associazione dei Sopravvissuti, con lo scorbutico avvocato Mitchell Garabedian, strenuo difensore delle vittime dei pedofili, e l’ascolto delle registrazioni del prete-psicologo forniscono loro informazioni di estrema preziosità, altrimenti irreperibili. Occultata da silenzi disumani. Coperta da strati di cenere e polvere che si sono depositati sulla verità lungo l’arco di molti anni. Insabbiata con la complicità di gran parte del “sistema che conta” a Boston, l’inchiesta giornalistica finalmente imbocca la strada giusta, trovando riscontri sempre più fondati. Emerge in tutta la sua drammaticità la responsabilità della Chiesa, che non prende posizione decisa contro i propri preti pedofili, ma li copre e li nasconde con sotterfugi difficili da individuare anche per un occhio abituato a leggere documenti in controluce. La Chiesa Cattolica di Boston non ha potuto da sola tenere sotto controllo e ridurre al silenzio un crimine così diffuso e odioso. “Ci vuole un villaggio intero per crescere un bimbo… o per maltrattarne uno”. I giornalisti del team Spotlight scoprono l’abbraccio mortale e le diaboliche connivenze tra autorità giudiziarie, avvocati, politici, polizia e istituzione ecclesiastica, che hanno fatto “sistema omertoso” attorno al crimine e hanno tenuto nascosti accordi extragiudiziali stipulati con le vittime degli abusi, perché non parlassero. La Chiesa si è comprato il silenzio degli innocenti. Ed è talmente potente e “coperta” che ha potuto far sparire documenti scottanti persino dal tribunale.
C’è nel film un momento di alta tensione etica, che corrisponde ad una profonda presa di coscienza della co-responsabilità che hanno i mezzi di informazione. I giornalisti di Spotlight si chiedono: “E quando succedevano queste cose, noi dove eravamo?”. Anche la comunità del Boston Globe mette in discussione il proprio operato e le debolezze del proprio sistema, talvolta scarsamente reattivo ai problemi della società. Solo così si è potuta creare un catena che ha reso schiavi centinaia di ragazzi, segnati per sempre nella propria personalità. Depredati dell’innocenza dell’infanzia. Il più delle volte le vittime dei pedofili sono bambini provenienti da famiglie disagiate, che credono di poter ricevere un aiuto dalla Chiesa che i preti rappresentano. Proprio per questo diventano vittime ancora più facili dei predatori con la tonaca, perché “Come si fa a dire di no a Dio?”. L’orrore è ancora più orribile. Il “faro di luce” emanato da Spotlight forse ha sconfitto la piovra. Ha scoperchiato comunque il vaso di Pandòra, facendo diventare planetaria l’attenzione a questo particolare crimine consumato dentro pareti protette della Chiesa cattolica. Ma lungo la strada rimangono i “cadaveri” dei sopravvissuti, spesso martirizzati dalla droga e dall’alcool, molte volte segnati da una dolorosa fragilità mentale. Tutti però la vita spezzata. I titoli di coda del film - bianco su nero dello schermo - sembrano un tetro elenco scolpito sulle tombe, per ricordare i nomi delle centinaia di città sparse in tutti gli Stati Uniti dove si sono consumati scandali simili a quelli di Boston.